Il tempo delle mediazioni, delle opere di convincimento e delle minacce di sanzioni che non spaventano nessuno questa volta sembra proprio essere finito. Se martedì e mercoledì prossimi, giorni in cui si terranno i vertici dei ministri degli Interni e dei capi di stato e di governo Ue, non si dovesse arrivare a un accordo sulle quote obbligatorie di profughi da ricollocare in Europa «dovremmo valutare seriamente anche il ricorso allo strumento della decisione a maggioranza» ha minacciato ieri il ministro degli Esteri tedesco Frank Walter Steinmeier. «Non può essere – ha aggiunto – che Germania, Austria e Italia portino da sole tutto il peso dell’emergenza».
Le parole di Steinmeier sono un chiaro avvertimento ai paesi dell’est che fino a oggi hanno fatto blocco impedendo un’equa divisione delle centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini che premono per entrare in Europa. Dopo il voto con cui giovedì l’Europarlamento ha dato il via libera alla proposta della Commissione Ue per il ricollocamento di 120 mila profughi, adesso gli appuntamenti decisivi sono proprio i due che si terranno all’inizio della prossima settimana. Il primo, martedì, riunirà ancora una volta i ministri degli Interno dei 28 dopo il fallimento di lunedì scorso, per poi lasciare la parola definitiva il giorno dopo al Consiglio europeo, vero organo decisionale della Ue. Se ancora una volta dovessero prevalere gli egoismi nazionali sulla volontà di trovare una soluzione condivisa alla più grande emergenza umanitaria del dopoguerra, l’Unione europea che abbiamo conosciuto sino a oggi rischia davvero di trasformarsi in un ricordo. Oltre alla sorte dei profughi – che non è certo poco – in gioco c’è infatti la sopravvivenza di uno dei valori fondativi dell’Ue come il trattato di Schengen, pesantemente messo a rischio dalla decisione assunta da molti paesi di ripristinare controlli alla frontiera o di innalzare muri.
Per questo i toni si fanno sempre più accesi con i passare delle ore. Ma anche perché per la prima volta un’Europa fino a oggi a indiscutibile trazione tedesca – al punto che la svolta sull’emergenza profughi si è avuta con la decisione della cancelliera Merkel di accogliere i siriani – è da settimane bloccata e messa in crisi dalla resistenza di Ungheria, Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca ai quali si è aggiunta anche la Romania. Per spiegare il nervosismo tedesco bisogna tener conto che la Germania non ce la fa più a sostenere l’impatto delle centinaia di migliaia di profughi (fino a un milione all’anno) che l’hanno scelta come nuova patria. «La Germania aiuta, ma chi aiuta adesso la Germania?» ha detto ieri il vicecancelliere Sigmar Gabriel ricordando che il paese «non può accogliere tutti». Ma sollecitando anche gli altri Stati a fare la loro parte. «Chi non condivide i nostri valori, alla lunga non può sperare nei nostri soldi», ha detto chiaramente rivolto ai paesi dell’est.
Da qui al decisione di forzare la mano procedendo, se sarà necessario, a un voto a maggioranza. «Si tratta di una procedura europea, nulla che si debba inventare», ha sottolineato la portavoce di Steinmeier.
Qualcosa comunque sembra muoversi. L’Ungheria si è detta disponibile ad accettare le quote a patto che l’Ue metta in campo «una forza che protegga le frontiere» e finanzi nuovi campi profughi in Giordania, Libano e Turchia. Il premier ceco Bohuslav Sobotka si è detto pronto ad accogliere fino a 15 mila profughi purché sia su base volontaria e la premier polacca Ewa Kopacz ha accettato di prendere un numero maggiore di profughi.
Se si tratti di vere aperture o meno lo si capirà molto presto. Intanto l’Unhcr chiede all’Unione europea di fare in fretta. «Il tempo per risolvere l’emergenza profughi sta finendo ha detto l’organizzazione sollecitando una soluzione. Un’emergenza resa ancora più chiara dai dati forniti ieri dall’Eurostat, secondo i quali nel secondo trimestre del 2015 i richiedenti asilo arrivati nell’Unione europea sono stati 213mila, in aumento del 15% rispetto ai tre mesi precedenti ma dell’85% rispetto al secondo trimestre del 2014.