La fine della legislatura ha fatto tirare un sospiro di sollievo al mondo ambientalista avendo comportato la mancata approvazione di una peggiorativa proposta di modifica della legge 6 dicembre 1991, n. 394, legge quadro sulle aree naturali protette.

Questa legge viene considerata la «Costituzione delle aree protette italiane», avendo consentito di passare da poche aree protette dei primi anni ’90 ad un sistema di parchi e riserve che protegge oggi oltre il 10% del territorio italiano.

Sicuramente, dopo 25 anni, la legge ha bisogno di alcuni aggiustamenti, ma il testo elaborato, dopo un lungo rimpallo tra Camera e Senato, non avrebbe risolto nessuno dei problemi delle aree protette, ma anzi li avrebbe aggravati, complici le numerose modifiche-spot apportate in maniera disorganica negli anni passati.

Critiche al disegno di legge di modifica sono state avanzate dalle associazioni ambientaliste e da tanti rappresentanti del mondo scientifico e operatori «dei» parchi e «nei» parchi, riuniti nel «Gruppo dei Trenta», così chiamato dal numero dei primi sottoscrittori di un appello in difesa della legge che ha finito per raccogliere migliaia di adesioni. Le modifiche che si volevano introdurre, infatti, erano insoddisfacenti sotto molteplici aspetti: dalla mancanza di obbligatorietà di specifiche competenze in campo ambientale per i ruoli apicali dei parchi, all’ingresso di portatori di interessi economici particolari nei consigli direttivi, dalla scarsa attenzione alle dotazioni organiche alla gestione faunistica sempre più condizionata dai cacciatori, dalla frammentarietà del sistema delle aree marine protette alla previsione di royalty su interventi impattanti nei parchi che avrebbero finito per rendere quasi «appetibili» detti interventi.

In pratica si è rischiato di dar vita ad un sistema appiattito verso interessi localistici e partitici, poco o per nulla attento al patrimonio naturale da tutelare.

E più in generale si è rischiato di perdere un’importante occasione. A ben guardare, infatti, il testo in discussione era tutto tranne che una moderna e organica riforma: fatto oggetto di rilievi anche da parte della Ragioneria generale dello Stato, interveniva sulla materia in maniera disomogenea e confusa senza tener conto del dibattito nazionale e internazionale su aree protette, conservazione della biodiversità, tutela del paesaggio e cambiamenti climatici. Mentre il legislatore del 1991 era stato in grado di introdurre aspetti innovativi grazie al confronto con la società civile e la comunità scientifica, questa volta si era scelto di non «ascoltare» i tanti che pure avevano proposto nuove e valide alternative.

È questa la seconda legislatura consecutiva in cui la legge quadro sulle aree protette riesce a salvarsi da brutte proposte di modifica, grazie all’impegno di tanti ambientalisti e operatori che, in una battaglia lunga e complessa, hanno messo in campo tutti i mezzi possibili.

Sarebbe auspicabile che il Parlamento e il Governo che usciranno dalle urne del prossimo 4 marzo vogliano far tesoro degli errori del passato e avviino una seria riflessione sul ruolo dei parchi, dando vita ad un costruttivo e reale confronto che magari prenda le mosse da una terza Conferenza nazionale sulle aree naturali protette, da più parti auspicata. Del resto questo era il naturale percorso delineato dall’allora Ministro dell’Ambiente Andrea Orlando a valle della prima Conferenza nazionale sulla biodiversità del dicembre del 2013: si tratterebbe di riprendere il cammino interrotto e mettere al lavoro le tante energie positive che da anni sono impegnate per lo sviluppo delle aree naturali protette italiane.