Il laboratorio «Giustizia e Nonviolenza» della CdB di san Paolo, a Roma, ha organizzato recentemente un dibattito sulle migrazioni, a cura della psicoanalista, Patrizia Cupelloni.

Per l’occasione è stato proiettato il film «La nave dolce» di Daniele Vicari.

Il film racconta, attraverso immagini di repertorio, l’arrivo a Bari, l’8 agosto 1991, di una nave albanese carica di ventimila persone, donne, uomini, bambini. Sfuggivano dal loro paese dopo il crollo del regime di Enver Hoxha. Guidati dal miraggio della terra promessa.

La gestione dell’arrivo è stata catastrofica, presagio inascoltato dei nostri tristi giorni. Su decisione di Roma, contro il parere del sindaco di Bari, Enrico Dalfino, gli albanesi sono stati reclusi nello Stadio della Vittoria a porte sprangate in condizioni disumane.

Esposti al sole impietoso dell’estate pugliese vennero nutriti con cibo che si buttava dall’alto come animali. Esausti hanno accettato di essere rimpatriati.

Viste oggi, le scene di allora ci danno, invertendo le posizioni, la chiara metafora del futuro che ci aspetta. Chiusi nel fortino di un’identità «pura», un falso che ci spersonalizza, compatti nel tenere fuori i barbari mentre ci stiamo imbarbarendo al nostro interno. Non ci è riservata la condizione di animali, a cui abbiamo destinato gli esclusi.

Gli animali, anche quelli selvatici, sono capaci di desideri e emozioni, sono più complessi di quanto Pavlov pensava. Il futuro in agguato è una società di automi vivi biologicamente ma morti psichicamente.

La strada verso l’inferno è lastricata di errori preterintenzionali: buone intenzioni, leggerezze, esagerazioni, proclami retorici, parole strumentali, pregiudizi e timori «normali», eccessi di «bravi ragazzi». Procedono nella loro concatenazione letale finché l’incubo, che abbiamo confinato nei nostri sogni, non si materializza nella vita del giorno.

Le notizie buie si susseguono, creano una certa inquietudine, ma non scatta l’allarme. La presidente del Tribunale di Venezia e il presidente dell’Ordine degli avvocati hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per la sezione immigrazione. Il protocollo persegue l’intento intimidatorio di complicare la difesa dei migranti. Rende, ad esempio, più frustrante sul piano economico l’impegno dei difensori e introduce clausole tragicomiche: l’obbligo di produrre informazioni sulla possibile presenza di malattie contagiose.

Per decisione di un giudice di Catania una nave appartenente a un ong spagnola è stata messa sotto sequestro in Calabria per aver infranto la legge sull’immigrazione clandestina. Aveva salvato la vita a 215 profughi raccolti dal mare. Questi giorni una guida alpina francese è stata incriminata per lo stesso reato dopo aver soccorso una giovane nigeriana in procinto di partorire, sperduta tra le nevi in alta montagna insieme a un gruppo di suoi compatrioti, portandola in un ospedale francese.

Niente autorizza che ai migranti, già discriminati sul piano dei diritti fondamentali, a causa dell’introduzione del reato di clandestinità, venga impedito di usufruire pienamente dei diritti di difesa riconosciuti a tutti.

Nessuno può essere incriminato per avere salvato una vita, specie in paesi che hanno bandito la pena di morte. Questa è una condizione preliminare per l’esistenza stessa del diritto.

I giudizi che non rispettano questa condizione agiscono fuori dal campo della loro funzione. Sono colpevoli di abuso di potere e non li assolvono le disposizioni governative.

Abbiamo smarrito l’aidòs. In greco antico significava: pudore/vergogna che si crea dal timore reverenziale di danneggiare gli altri e ci predispone a rispettarli.