A rendere più densa l’agenda dei leader è arrivata la crisi con la Bielorussia, precipitata sul Consiglio europeo straordinario, il primo in presenza da mesi, il cui ordine del giorno prevedeva una discussione tra i 27 su Russia, Medio Oriente e sui rapporti con la Gran Bretagna. Non una parola invece sull’immigrazione, tanto che l’argomento non è previsto neanche che appaia oggi nelle conclusioni del vertice.

La questione è però sul tavolo, visto che Mario Draghi è arrivato a Bruxelles intenzionato ad affrontarla, seppure solo per informare gli altri capi di Stato e di governo delle intenzioni italiane. Che tutto sono tranne che misteriose: rimettere mano al patto europeo su migrazione e asilo andando a intaccare il principio per cui spetta al Paese di primo approdo occuparsi dei migranti. Il che significa soprattutto discutere, anzi ridiscutere il meccanismo dei ricollocamenti in Europa che l’Italia vorrebbe rendere obbligatori. Un meccanismo «che è stato messo a dormire da un po’ di tempo», ha lamentato nei giorni scorsi il premier, che vorrebbe vedere l’Europa intervenire su quelli che ha definito «tre pilastri»: «il primo è la redistribuzione, il secondo è un intervento economico che devono fare i Paesi ma anche l’Ue nel suo complesso, il terzo è la collaborazione bilaterale e multilaterale con i paesi di partenza».

Missione (quasi) impossibile, anche se questa volta Draghi può contare sull’appoggio del premier spagnolo Sanchez che in questi giorni ha dovuto fare i conti con i numerosi arrivi a Ceuta, frutto della crisi politica con il Marocco. Ma anche sugli altri Paesi del Mediterraneo come Malta e Grecia, direttamente coinvolti dagli sbarchi di migranti.

Più che una vera e propria discussione, dunque, un giro di opinioni che Draghi avrebbe voluto ascoltare ieri sera durante la cena tra i leader e utile più che altro per capire che aria tira in Europa e quanto gli altri Stati sono disposti a venire incontro alle esigenze italiane. L’impressione è che la strada sia ancora lunga. Anche se nei giorni scorsi non sono mancate parole di solidarietà con Roma, come quelle espresse dalla commissaria Ue agli Affari interni Ylva Johannson alla vigilia del missione compiuta la scorsa settimana in Libia con la ministra Lamorgese, i segnali che arrivano da Bruxelles non fanno presagire niente di buono. «Io voglio difendere le famiglie ungheresi» ha chiarito subito, ad esempio Viktor Orbán appena arrivato a Bruxelles. Un riferimento alle altre questioni in agenda al vertice come clima e ambiente, ma esteso dal premier magiaro anche all’immigrazione. Una posizione, quella di Orbán, condivisa anche dagli Stati del Nord Est.

Le speranze italiane di coinvolgere gli altri Paesi rischiano dunque di restare tali. O al massimo di riuscire a ripristinare l’accordo siglato a Malta nel 2019 con la disponibilità offerta da alcuni Paesi volenterosi ad accogliere i migranti. Niente di più.

Tutto slitterà probabilmente al consiglio europeo di fine giugno, l’ultimo prima della pausa estiva, ma solo per l’ennesimo rinvio. Sui migranti infatti, il Consiglio non sembra intenzionato a cambiare posizione e prevede maggior impegno sui rimpatri attraverso nuovi accordi con i Paesi di origine, insieme alla promessa di investimenti. Niente di più. Almeno fino a quando nel Consiglio le decisioni verranno prese all’unanimità.