Adesso è davvero una corsa contro il tempo perché in gioco potrebbe esserci qualcosa di più della spartizione in Europa di poche decine di migliaia di profughi. Manca meno di una settimana al vertice dei ministri degli Interni dell’Unione europea fissato per il prossimo 16 giugno e le diplomazie sono al lavoro per mettere assieme i cocci e mostrare almeno un’apparente unità tra i 28. Lo stop annunciato martedì al piano di ricollocamento di 40 mila migranti eritrei e siriani deciso dalla Commissione europea rischia infatti di non colpire solo Italia e Grecia, i due Paesi che si gioverebbero della divisione dei migranti, ma le stesse istituzioni europee. A partire proprio dalla Commissione guidata da Jean Claude Juncker, che vedrebbe messa pesantemente in discussione la propria credibilità. «Se la proposta sull’immigrazione non passa è la fine dell’integrazione europea», sottolineavano ieri fonti della stessa Commissione per le quali «il prossimo passo sarebbe un duro attacco al sistema Schengen».

A remare contro è un gruppo di Stati non particolarmente numeroso ma combattivo che comprende i paesi Baltici ma anche Polonia, Ungheria, Bulgaria, Portogallo e, soprattutto, Francia, Spagna e Gran Bretagna, tutti contrari ai criteri stabiliti per la ripartizione di richiedenti asilo. L’appuntamento decisivo, in realtà, più che il vertice del 16 giugno è il Consiglio dei capi di Stato e di governo previsto per il 25-26 giugno, il vero centro decisionale dell’Ue. La Spagna, in particolare, chiede che venga rimessa mano al criterio di obbligatorietà della divisione. «Ma se lo schema fosse volontario non funzionerebbe», spiegano ancora le fonti. E per convincere i paesi dell’Est si prova a spiegare che il meccanismo obbligatorio in futuro potrebbe risultare vantaggioso anche per loro, specie se la crisi Ucraina dovesse spingere alla fuga decine e forse centinaia di migliaia di persone.

Che l’aria che tira a Bruxelles in questi giorni non sia delle migliori, lo si capisce anche dalle dichiarazioni dei portavoce della Commissione Ue, ben attenti a sottolineare come un eventuale fallimento della partita migranti non potrebbe ricadere sulla commissione. «Noi crediamo che bisogna agire ora, non tra quattro mesi», ha detto Natasha Bertyaud riferendosi alla possibilità di uno slittamento di ogni decisione a settembre, sotto la presidenza lussemburghese. «Abbiamo messo una proposta ambiziosa sul tavolo – ha proseguito – sapevamo che non avremmo vinto un premio di popolarità, ma ci aspettiamo che i ministri prendano le proprie responsabilità».

Se a Bruxelles c’è aria di bufera, non certo migliore è il vento che soffia a Roma. Un eventuale fallimento del piano quote – già definito «insufficiente» da Renzi e Alfano – assesterebbe infatti un duro colpo anche governo, specie adesso che Lega e Forza Italia guidano la rivolta delle Regioni contro l’accoglienza dei migranti. «Sull’immigrazione in Europa ridono in faccia la governo italiano», non a caso ha attaccato Matteo Salvini parlando ieri in Lombardia a un comizio per i ballottaggi di domenica, sapendo bene che soffiare sul malessere generato dall’emergenza immigrazione ingrassa le urne a suo favore.

Per il governo quindi portare a casa un risultato il più presto possibile è importante per più di u motivo. E per questo spinge sullo spauracchio di un’Unione europea senza più senso in caso di fallimento. «L’Europa si trova di fronte a un bivio decisivo: essere solidale e responsabile di fronte al dramma dell’immigrazione o non essere», ha spiegato in parlamento un preoccupatissimo Angelino Alfano. «Un rinvio del piano immigrati sarebbe una enorme sconfitta politica per l’Europa», ha insistito il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni assicurando che l’Italia «si batterà per l’approvazione nei tempi previsti» della proposta della Commissione Juncker.