Siamo alla nuova replica dell’allarme migranti. Replica tragica, perché nelle more di un problema irrisolto, anzi mai affrontato, uomini e donne continuano a cercare scampo e invece trovano morte e violenza sulla loro strada, in mare e in terra. Replica tragica, perché i migranti vengono ignorati quando annegano, diventano pericolosi quando si salvano e approdano. Ed ecco levarsi le voci della speculazione sovranista: allarme invasione, lo sbarco dei mille, prima gli italiani, chiudiamo i porti, difendiamo i confini, cabina di regia. È la tetra litania salviniana che domina la scena mediatica, che corre sui telegiornali, che occupa i talk show e purtroppo trova spazio al governo. La tetra litania di chi ha smantellato le pur deficitarie strutture di accoglienza esistenti, ha peggiorato con questo i problemi dell’ordine pubblico, ha scatenato fiumi di odio, ha simulato una soluzione del problema ricattando l’Unione Europea col corpo dei migranti sequestrati: se non ve li prendete, per me rimangono in mare. Possono vomitare, possono partorire, possono morire. E se sapranno di dover morire, non fuggiranno più da dove già muoiono.

SE SI DESSE OGNI TANTO la parola agli storici, e magari ai sociologi e agli antropologi si capirebbe che il discorso sui migranti, sul problema e sul modo di farvi fronte, non ha niente a che fare con questa sceneggiata allestita al semplice scopo di alimentare le paure e di guadagnare consensi. Perché l’Italia, come tutti sappiamo, ha conosciuto le sue migrazioni, interne ed esterne, fatte di partenze e di arrivi, da tempo immemorabile, ben prima che battesse alle sue porte il popolo disperato dei gommoni. E in questa storia di migrazioni, benché ogni fenomeno sia diverso nel tempo e nello spazio, ci sono analogie che possono aiutare a dissipare le nebbie.

PER FARE UN ESEMPIO. Una stravagante teoria sostiene che la colpa dei flussi via mare dipende da due fattori: ossia non dai migranti, ma da coloro che li trasportano e da coloro che li salvano quando stanno per annegare. Ossia dai trafficanti di uomini e dalle organizzazioni umanitarie. È vero semmai l’inverso: i trafficanti di uomini esistono perché esistono milioni di uomini e donne che cercano salvezza altrove e perché nessuna istituzione pubblica italiana nè europea si è posta il problema di organizzare espatri legali per coloro che ne hanno bisogno, nemmeno quando fuggono da paesi che sono stati riconosciuti come non sicuri come la Libia. Tutto quel che i governi sono oggi capaci di fare è pagare altri paesi, compresi quelli insicuri (cioè pericolosi) perché li trattengano, con le buone o con le cattive. La Libia è uno di questi e lo fa chiudendoli nei lager, andando a riprenderli quando si imbarcano sui gommoni grazie alle motovedette che le ha regalato l’Italia, bastonandoli quando reagiscono e lasciandoli annegare quando il mare è troppo agitato. Quanto alle organizzazioni umanitarie, si è fatto in modo di dissuaderle dal girare in mare per i salvataggi: sono state criminalizzate, bloccate, denunciate e infatti sono dovute sparire, ma i migranti come si vede in questi giorni hanno continuato a muoversi e a morire.

IN FORME DIVERSE QUALCOSA di simile accadde nei decenni della grande ondata migratoria transoceanica italiana tra fine Ottocento e primo Novecento. Allora i trafficanti di uomini erano di due tipi. Erano i cosiddetti agenti di emigrazione, ossia persone che agivano sul territorio italiano per conto di aziende americane promettendo mari e monti a coloro che avevano bisogno, magari pagando loro il viaggio cioè comprando con anticipo la manodopera a basso prezzo, per esempio quella dei contadini: braccianti o piccoli proprietari e affittuari corrosi dal «tarlo dei debiti» come lo chiamò un grande storico delle migrazioni, Ercole Sori, ignorato dagli attuali costruttori di musei. Ed erano gli armatori (a cominciare dai genovesi) che, alzandosi l’ondata, capirono presto che l’emigrazione era un grande affare, perché consentiva di viaggiare tra le due sponde dell’Atlantico con le navi sempre cariche, all’andata di uomini, al ritorno di merci. Qualche volta si trattava di navi vecchie e logore sulle quali il viaggio era un inferno e qualche volta finirono in fondo al mare.

MA, ALLORA COME OGGI, i motori delle migrazioni erano una conseguenza, non una causa. E anche allora il dibattito tra emigrazionisti e antiemigrazionisti era mosso da fini diversi da quelli dei bisogni dei migranti, anche se la classe dirigente italiana di fine secolo era mediamente meglio di quella che sbraita oggi sui social. Anche allora i governi si mossero in ritardo e principalmente in termini di ordine pubblico: stabilirono misure restrittive per fermare l’emigrazione in uscita, soprattutto su pressione degli agrari che si vedevano sfuggire di mano la forza lavoro. Si dovette aspettare sino al 1901, auspice il liberale Giolitti, per vedere la prima legge di tutela dei migranti. Insomma, la storia c’è. Anche quella può servire a smontare le narrazioni inventate. La storia non può insegnarcela Salvini.