Dopo aver rimandato per ben due volte l’udienza in meno di una settimana, ieri la Corte suprema indiana si è finalmente pronunciata su uno dei diversi grovigli burocratici che caratterizzano il caso Enrica Lexie, conosciuto meglio in Italia come l’affare dei Due Marò. La Corte ha stabilito che, come da indicazioni del governo centrale di New Delhi, le nuove indagini sull’incidente del febbraio 2012 al largo delle coste del Kerala saranno affidate alla National Investigation Agency (Nia) e non, come richiesto dalle autorità italiane, al Central Bureau of Investigation (Cbi).

La notizia, nel tragitto dall’India all’Italia, si è come di consueto colorata di una serie di accezioni tragiche che, esaminando con cura le indiscrezioni filtrate sulla stampa indiana, rientrano in quella che i Wu Ming hanno efficacemente descritto alcuni mesi fa come la “narrazione tossica” propinata all’ignaro pubblico italiano.

Ad esempio, è vero che la Nia è un’agenzia creata dal governo indiano nel 2009 per occuparsi di antiterrorismo, ma il fatto che ora abbia il compito di indagare sui presunti reati commessi dai due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone non implica assolutamente che i due siano considerati dall’India alla stregua di terroristi. Proviamo a contestualizzare.

Da quando i due marò hanno fatto ritorno in India lo scorso mese di marzo, ponendo fine alla grottesca querelle imbastita dall’ex ministro Terzi, la diplomazia italiana, tramite il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, si è adoperata in ogni sede pubblica ed istituzionale per arrivare ad una conclusione della vicenda legale il più in fretta possibile. Proprio per questo, citando l’intervento del procuratore generale Vahanvati, Delhi ha deciso di chiamare in causa la Nia, poiché il Cbi è al momento “oberato” dal lavoro. Vahanvati ha assicurato che la Nia e la Corte speciale lavoreranno al caso ogni giorno per arrivare ad una sentenza entro 60 giorni.

L’Italia teme però che la Nia possa avanzare alla Corte speciale la richiesta di applicare la pena di morte per i due marò, prendendo alla lettera lo statuto dell’agenzia che la obbligherebbe a muoversi legalmente ricorrendo alla legge del 2002 che regola i procedimenti penali contro crimini commessi in mare (Sua Act). Secondo l’Italia, la Nia può occuparsi dei marò solo attraverso il Sua Act, che prevede appunto la pena capitale.

Senza contare le rassicurazioni ricevute da svariati esponenti dell’esecutivo indiano (dal primo ministro Singh al ministro degli Esteri Khurshid), nell’udienza di ieri sempre Vahanvati ha chiarito che la Nia “non è vincolata in questo caso dal Nia Act”, ovvero si muoverà tra i lacci della burocrazia indiana come semplice polizia federale, non come polizia antiterrorismo.

A fronte di continue precisazioni da parte delle autorità indiane, rimane un mistero il motivo che spinge la nostra stampa a paventare la gogna per i due marò. L’India ha fatto e sta facendo di tutto per spiegarci che il rischio non esiste né è mai esistito. Basterebbe solo ascoltarla.