A prima vista tra Sergio Pirozzi, ruspante sindaco di Amatrice, e Pierre Moscovici, compassato commissario europeo all’Economia, non esistono punti di contatto. Qualcosa invece li accomuna: rappresentano entrambi un problema per Silvio Berlusconi. Non quello più fastidioso però: la palma, come da sempre in qualsivoglia polo, spetta ai centristi della coalizione. La cosiddetta «quarta gamba» non si accontenta dei 13 collegi uninominali che le spetterebbero secondo la divisione stabilita domenica: 155 seggi a Fi, 129 alla Lega, 51 a FdI e 13 agli ultimi arrivati. In realtà, poi, quei 13 striminziti collegi uninominali sono solo 11, perché il partito azzurro non intende imbarcare nella propria quota Sgarbi e Paolo Naccarato, dei quali deve invece farsi carico la minipattuglia centrista.

I penalizzati non l’hanno presa bene. Più precisamente sono tanto imbufaliti da minacciare la defezione. Contropropongono 35 seggi e non se ne parli più. Su scala nazionale le truppe centriste di Nci non valgono tanto. Ma hanno il vantaggio di una forte concentrazione territoriale in Puglia, dove Fitto è ancora un ras, e in Sicilia, feudo dell’Udc. Non a caso a presentare lagnanze con annessa minaccia ricattatoria al gran capo, nel solito palazzo Grazioli, ieri sono stati proprio Fitto, il leader, e Lorenzo Cesa, appena nominato presidente. Berlusconi ha promesso di metterci una buona parola, ma la riunione del tavolo della destra nel pomeriggio si è conclusa con un nulla di fatto. «Se vogliono cambiare le cose, Berlusconi, Salvini e Meloni devono farlo loro», dichiarano i plenipotenziari al termine della tempestosa riunione. Tempestosa soprattutto per lo scontro tra Lega e Fi sui collegi lombardi che la Lega reclama praticamente tutti per sé. I due ambasciatori hanno comunque messo nero su bianco l’aut-aut: «La nostra forza è indispensabile per far prevalere la coalizione in numerosi collegi». A tal fine è però imprescindibile «che ogni forza politica abbia pari dignità». Anche «per i criteri di rappresentanza».

Il guaio centrista si intreccia con quello della candidatura nel Lazio. Pirozzi punta i piedi. Ieri ha riunito all’Eur i suoi sostenitori e non erano pochi. Si è prodotto in dichiarazioni sulle mamme italiane da far impallidire la difesa della razza di Fontana. In realtà Pirozzi, che un suo appeal popolare ce l’ha e non deve fare i conti con l’handicap che grava sui politici di lungo corso, non sarebbe probabilmente una pessima scelta in sé, soprattutto in una piazza dove le chance di vittoria, dopo l’accordo tra Zingaretti e LeU, sono esigue. La nota dolente è che la sua candidatura alle regionali non tirerebbe la volata a Forza Italia nelle politiche, e a quell’atout Berlusconi non si rassegna ancora a rinunciare. Ma se il candidato deve essere di FdI, allora Forza Italia preferirebbe che fosse Fabio Rampelli, il vero regista del partito. Il quale però non ci pensa per niente: se perde Pirozzi ha perso solo lui, se perde Rampelli ha perso tutta Fdi.

Infine l’Europa. La reazione a caldo di Fi al pronunciamento del commissario europeo Moscovici contro Lega e M5S, esageratamente favorevole, non è piaciuta alla Lega e in realtà ha creato dubbi nella stessa Forza Italia. Moscovici quasi esplicitamente sponsorizzava una maggioranza Pd-Fi a sostegno di un governo con le caselle chiave, palazzo Chigi e ministero dell’Economia, occupate da chi già le occupa. Un po’ troppo sfrontato e ieri mattina Antonio Tajani ha corretto la rotta: «Moscovici è un socialista e non parla a nome dell’Europa, anche se è vero che c’è preoccupazione per l’Italia come ce n’era per la Germania». Qualche ora dopo, il forzista presidente dell’Europarlamento rincara: «Il tetto del 3% non è un dogma di fede. Se serve per la crescita si può sforare». L’opposto esatto di quel che aveva gridato Moscovici.