Appena uscite sul terrazzo dell’Hotel Excelsior al Lido, squilla il telefonino di Suha Arraf e lei mi fa cenno che deve rispondere. Tornata al tavolo per iniziare la nostra chiacchierata le sfugge un «quanti problemi!». Avevo sentito delle difficoltà sopraggiunte a causa del contributo da parte dell’Israeli Film Found concesso a Villa Touma, il suo film in concorso alla 29° Settimana della critica. Al mio sguardo interrogativo risponde, esclamando: «mi stanno usando per la loro sporca politica!» In che senso? La sceneggiatrice di La sposa siriana e Il giardino dei limoni di Eran Riklis (per la quale vinse l’Asia Pacific Screen Award e fu nominata, sempre nel 2008, per gli European Awards) mi spiega che in Israele tra poco ci sono elezioni interne e i due ministri della cultura e dell’economia, entrambi appartenenti a Likud, il partito nazionalista e sionista conservatore, fanno strillare i titoli dei giornali per affermare che lei avrebbe «rubato soldi al cinema israeliano». Si parla persino di «frode al fondo cinematografico israeliano».
Come mai?
Sono una donna palestinese con cittadinanza israeliana (è nata a Melia, villaggio palestinese vicino al confine con il Libano, ndr), e siamo un milione e mezzo a vivere in questo paese. Non ci sono soltanto la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, abitiamo un po’ ovunque lavorando normalmente e pagando le tasse come tutti. È un mio diritto richiedere un contributo al Fondo di cinema nazionale, non mi hanno fatto un favore né mi hanno regalato qualcosa, di certo non ho rubato quel denaro! Noi arabo-israeliani siamo considerati cittadini di secondo ordine, eppure rappresentiamo il venti percento di cittadini israeliani e secondo la legge avremmo diritto al venti percento della somma totale messa a disposizione per la produzione cinematografica. Invece no! Se va bene, ci danno l’un percento. Combatto su tre fronti: per la mia identità, essendo donna palestinese, per i miei diritti civili, essendo cittadina israeliana, e per la libertà delle arti. Tendono a mettere tutto sul piano politico. Non stupisce, d’altronde, visto che dopo quest’estate di bombe su Gaza il clima anche a livello umano si è molto inasprito.
Qual era il budget, visto che viene contestato?
Bassissimo! In tutto circa mezzo milione di dollari, è pochissimo per un film così, la nostra parola d’ordine era for free – gratis! Lo era il mio lavoro da sceneggiatrice e regista, così come l’arredo della villa, un interno alto-borghese: avevamo lanciato annunci sui social network richiedendo utensili, tende, quadri, da poterci regalare o prestare per le riprese. Anche tutti noi del cast abbiamo frugato nelle nostre case e cantine per portare sul set oggetti eventualmente utili. Il cinema è visuale, ottimi professionisti tra direttore di fotografia, scenografo, costumista e le stesse attrici mi hanno aiutato a raggiungere un buon livello.
Come hai trovato le quattro donne così diverse, fisicamente e professionalmente?
Siamo amiche, il casting l’ho fatto unicamente per trovare Badia, la nipote che arriva dall’orfanotrofio irrompendo nel buio e nel silenzio di questa villa, come un fattore di disturbo. Con Nisreen Foura ci conosciamo da tanto e sin dall’inizio sapevo che lei è Violette, la sorella maggiore. Avevamo studiato alla stessa università, poi lei era andata a vivere a Parigi, l’ho chiamata, le ho parlato della sceneggiatura e soprattutto del personaggio. Cherien Dabis, che interpreta la sorella minore, l’avevo conosciuta al festival di Haifa dove c’era un suo film in programma. Mi avevano chiesto di presentarla essendo anche lei di origini palestinesi. Ci eravamo ritrovate per caso l’anno successivo a Doha, in occasione di un altro festival, e lì le proposi di far l’attrice. Lei era rimasta un po’ sorpresa, quindi le ho inviato il copione e ne abbiamo parlato via skype. Era fatta! Per trovare Badia ci era voluto molto più tempo, volevo una giovane innocente che avesse però uno sguardo profondo e intelligente. Ne ho viste cinquanta, poi era entrata Maria Zreik: sapevo da subito che era lei, la mia Badia!
Come sei riuscita a creare quelle affinità, che goethianamente definirei «elettive», tra le quattro donne e che fai sfociare in quelle meravigliose coreografie scandite al millesimo di secondo, quando bevono il thè o mangiano o ricamano, tanto da richiamare quel sincrono perfetto conosciuto nei film musicali hollywoodiani?
Tante prove di lettura con lunghe discussioni su emozioni e stati d’animo profondi dei personaggi, in cui abbiamo anche cambiato alcuni passaggi nella sceneggiatura. Infine abbiamo girato velocemente, in soli ventitré giorni, spesso un solo ciak per una scena. Poco prima di iniziare le riprese avevo inviato a tutt’e quattro un esaustivo profilo personale della rispettiva donna da rappresentare sullo schermo, elencandone caratteristiche, comportamenti, cibi preferiti, ecc.
Villa Touma è un classico film da camera, ma di altissimo contenuto politico.

Sì, è vero! Non amo i film politici dichiarati come tali, preferisco quelli più personali, senza grandi slogan e tanto blablabla ideologico. C’è bisogno di storie umane con un respiro ampio e una dimensione internazionale, affinché in molti vi si possano riconoscere. Villa Touma rispecchia la società israelo-palestinese, senza vittime e senza eroi, sondandone la dimensione umana. Certo, mi piovono addosso molte critiche, soprattutto da parte europea, sono persone che si aspettavano un altro Giardino di limoni, dai netti confini tra il buono e il cattivo, tra potenti e oppressi, e soprattutto col conflitto in primo piano. Nelle proiezioni test abbiamo visto però che il film piace, così com’è. Qui a Venezia è stato presentato per la prima volta, tra poco sarà al Toronto Film Festival in Canada, poi in Egitto. Vediamo come reagiranno lì a questo dramma borghese che offuscherebbe il conflitto, apparentemente soltanto fuori da quell’angosciante universo interno. D’altronde capisco, è difficile capire la nostra realtà, quotidiana intendo, soprattutto dopo un’estate come questa, delle bombe continue su Gaza che hanno inasprito molto il clima di convivenza sul piano umano, anche.
Le scene esterne sono poche, non c’è una inquadratura che con un totale, una visione da lontano, mostri la villa per intero, e di conseguenza quell’interno con famiglia appare proprio isolato. Isolati, come lo sono gli abitanti di Gaza?
Certo, uso il muro che circonda il giardino della villa come metafora per quello che rinchiude l’intera Cisgiordania creandone come un’isola a se stante. Uso i colori della bandiera palestinese nella scena del ricamo, le discordie tra le sorelle stanno per le discordie quotidiane che riempiono i giornali.
Il finale mi appare come un segno di speranza per una futura convivenza pacifica; forse ci vuole una ulteriore generazione, come ci insegna la storia anche altrove dove ci volevano almeno due o tre per rimarginare ferite profonde?
Me l’ha fatto notare anche un altro critico, che l’ha interpretato sul piano politico, come lei. Invece io ci vedo piuttosto una speranza per l’umanità in generale. La vita supera la politica, ed è qui che il cinema si espande in tutta la sua complessità nel narrare storie per narrare la grande Storia.
Come hai trovato questa villa?
Per puro caso, stavo girando con Nicola, assistente dello scenografo Eytan Levy, in macchina per andare a vedere un’altra location, quando l’avevo intravista. Ci era voluto oltre una settimana per individuare il proprietario!
E l’idea di farne il nucleo centrale del film?
Risale ai tempi in cui lavoravo come giornalista. Ero a Berlino e mi inviarono a Ramallah per indagare sugli echi riscossi ai tempi degli Accordi di Oslo, atto di pace tra Yasser Arafat per l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e Simon Peresh per il governo israeliano. Mi dissero di andare a visitare un certo Ramallah Hotel, bellissimo, in centro, chiuso nel 1967 all’insorgere della prima Intifada. Appena entrata rimasi affascinata, sembrava di andare indietro nel tempo, che in quella casa si era fermato, identica quasi come la si vede nel film, lì tutti i mobili erano ricoperti con lenzuola bianche. Mi fece da guida una signora anziana dai bellissimi occhi verdi, morta da poco, e mi raccontò che Omar Sharif aveva alloggiato là, come tanti altri Vip. Si usava invitare gruppi musicali dalla Spagna e dall’Italia per farli suonare nel cortile, per gli ospiti altolocati dall’intero Medio Oriente, a partire dal Re Hussein II. Era una specie di rinnego del presente nella speranza di sopravvivere col passato, dentro questa lady che abitava quegli spazi. Fu in quella situazione che mi era nato il quesito di partenza: cosa ne sarebbe stato di Ramallah se non sarebbe stata occupata dall’esercito israeliano? Molte delle atmosfere ricreate nel film le ho visto davvero lì dentro, quadri, ritratti, candele accese, piatti e tazze, mobili…
Si parla di esordio, eppure sei riuscita meravigliosamente a rendere questo ambiente claustrofobico, stratificato di più livelli significativi.
Nella finzione ho esordito, sì, ma da anni faccio documentari (ricordiamo qui il premiatissimo Women of Hamas del 2010) e voglio continuare a scrivere per altri. Mi piace e ho tante storie da raccontare. Per Villa Touma sentivo la necessità di metterlo in scena io, ciò non significa che ero scontenta del lavoro svolto dall’amico Riklis. Adoro il suo humour sottile, quel sorriso stampato sul volto, lui è una persona stupenda, dal cuore grande! Da lui ho imparato tanto, direi che rappresenta per me quello che voglio rappresentare nel film: essere umano. Lavorare con lui fu per me come andare a scuola. Il mio è uno stile diverso, affonda le radici nel documentario, il mio umorismo va espresso in situazioni e non in dialoghi perché nelle traduzioni si perdono sfumature, doppi sensi, esasperazioni iperboliche, come ad esempio vediamo in quelle tre sorelle. Forse il mio essere esordiente mi ha permesso di tenere una certa vivacità ritmica nella statica drammaticità?