«Mi sento di ‘appartenere’ perché sento di avere dentro di me tutta la storia della mia terra, quella edulcorata e quella livida, le cose belle ma anche quelle negative, i comportamenti accettabili e quelli inammissibili». Non è la prima volta che Roberto Zappalà, coreografo catanese che nel suo stile fonde temperamento e bellezza, impegno e capacità contemplativa, ci porta con i suoi spettacoli dentro storia e natura della sua Sicilia. Con il progetto re-mapping Sicily, di cui ci è restato nel cuore l’esemplare A semu tutti devoti tutti? dedicato alla festa popolare di Sant’Agata, Zappalà ha fatto crescere negli anni i suoi danzatori dando loro una consapevolezza alta non solo nel movimento, ma nella relazione possibile tra corpo in scena e territorio, tra scrittura compositiva, società, realtà politica.

La compagnia di Zappalà ha una lunga storia: nata nel 1989, risiede dal 2002 in uno spazio completamente recuperato da Zappalà alla cultura di danza catanese, Scenario Pubblico, un centro di riferimento per la coreografia e la formazione di respiro europeo. Un luogo che ospita artisti internazionali, oltre alle creazioni della compagnia di casa, e in cui si tengono lunghi seminari professionali come MoDem, acronimo di Movimento democratico con cui approfondire lo studio del linguaggio di Zappalà.

Sudvirus, il piacere di sentirsi terroni, creazione in scena nel weekend scorso a Scenario Pubblico, conferma a pieno l’interesse di questo volitivo e tenace artista catanese per la messa a fuoco di progetti nei quali l’attenzione alla ricchezza del linguaggio prettamente coreografico si accosta all’affondo nelle radici siciliani. Mai per essere didascalici, ma per rimescolare nell’arco temporale di uno spettacolo temi e realtà che appartengono a una terra meravigliosa quanto difficile, incandescente per bellezza e problematicità. Virus che si inietta nei corpi, nel segno della danza, nella potenza del movimento, nella relazione del gruppo con lo spazio e con il suono, con il tempo e la parola: ricchezza del dinamismo della danza che incoccia per poi fondersi tra le pieghe delle parole e la forza della musica.

Sì, perché Zappalà in questa creazione sviluppata nel 2013 da un primo studio nato su commissione per il Goteborg Ballet nel 2011, ha voluto al fianco dei suoi potenti sette danzatori dal curriculum internazionale, tre artisti portavoce della cultura siciliana, l’attore Vincenzo Pirrotta, Puccio Castrogiovanni ai marranzani e Alfio Antico ai tamburi. La drammaturgia è, come sempre nei lavori di Zappalà, condivisa con Nellò Calabrò, e porta alla compresenza di una danza, in cui l’energia sfocia sul palco con modalità quasi astratte, con un testo nutrito di paesaggi, persone, natura: «ho per questa terra l’amore di un ortolano / e voglio vedervi fiorire l’erba buona! / Che vi regni l’armonia della potenza / che tutti i venti del mare, della terra/ del cielo soffino nella luce/ santa del sole». Bach, Beethoven, i marranzani e i tamburi, la voce e la recitazione danno vita a una partitura piena di contrasti, di luci e di ombre nelle quali i danzatori – tutti di grande qualità tecnico-interpretativa – sfoderano una dinamica di fluidità potente che, pur senza narrare in sé, trascinano dentro il sentire e l’essere del sud. Molti applausi per un teatro esaurito con liste d’attesa per una compagnia che si meriterebbe una distribuzione più ampia.