I braccianti, soprattutto migranti, durante questa pandemia hanno conosciuto il volto più ipocrita dello Stato. Sono stati considerati fondamentali in quanto utili alla produzione agricola del Paese, mentre continuavano ad essere ogni giorno reclutati da caporali e padroni nelle piazze di molte città italiane e sfruttati in molte aziende agricole. La pandemia ha cambiato spesso in peggio la loro condizione. Obbligati a lavorare senza mascherine e guanti, alcuni hanno usato per proteggersi sciarpe pesanti avvolte sul viso mentre eseguivano gli ordini del capo di turno. Hanno visto spesso aumentare le ore di lavoro quotidiano mentre continuavano a vivere in ghetti, baracche, residence abbandonati, lungo una filiera dello sfruttamento che è diventata la colonna vertebrale di un’economia mafiosa ogni anno più sviluppata. La sera poi Conte li ringraziava durante la consueta conferenza stampa.

Una condizione indecente che Paola (nome di fantasia), bracciante di 43 anni originaria del Comune di Sarno, in provincia di Salerno, che da oltre dieci vive nelle campagne di Latina insieme al marito, racconta perfettamente. «Lavoro da 20 anni come bracciante e mi ritrovo con la schiena spezzata, con l’artrite alle mani e problemi ai polmoni per tutti i veleni che ho respirato». Il coronavirus ha cambiato in peggio il suo lavoro. Ha lavorato anche per il padrone delle due aziende agricole di borgo Faiti, nel Comune di Latina, sequestrate in piena pandemia il 23 aprile scorso dalla questura pontina. In una di esse, di proprietà della famiglia De Pasquale, Paola ha lavorato per tre anni prima di cambiare perché «non potevo più accettare di lavorare nel fango e al freddo come una schiava quasi tutti i giorni per 600 euro. Ho lavorato con decine di africani, indiani e bangladesi trattati come bestie».

Nelle aziende di De Pasquale venivano impiegati oltre cento braccianti, in gran parte indiani ma anche originari di vari paesi dell’Est, e alcune donne italiane. Tutti erano impiegati senza mascherine e con l’obbligo del silenzio. Venivano condotti in azienda ammassati in furgoni fatiscenti, evitando il distanziamento sociale, per lavorare dodici ore al giorno per 26 giorni al mese. Inoltre non venivano riconosciuti straordinari per le ulteriori ore prestate né il riposo settimanale e la copertura sanitaria. La paga giornaliera era di 30 euro per uno stipendio che oscillava tra i 500 e gli 800 euro, corrispondente a meno di 4 euro all’ora. Tutto questo in piena pandemia. «Quei 600 euro – dichiara Paola – per noi erano la vita ma avevo così tanta rabbia per ciò che ero costretta a sopportare ogni giorno che spesso, mentre raccoglievo la loro maledetta verdura, mi scendevano lacrime che si mischiavano al sudore».

L’operazione della Questura di Latina segue un’altra operazione condotta il 14 aprile scorso in Emilia Romagna. A Forlì 45 richiedenti asilo erano obbligati a lavorare nei campi agricoli fino a 80 ore la settimana per appena 50 euro al mese. Erano in gran parte pachistani e afghani sfruttati per mesi nei campi agricoli da un’organizzazione che li alloggiava in casolari senza acqua calda, con cibo scadente e materassi a terra. Gli indagati, tutti pachistani, sottoponevano i loro connazionali a ripetute intimidazioni per evitare che si ribellassero. Schiavi, anche in questo caso in piena emergenza Covid, per via di un mercato del lavoro che numerose riforme ha subordinato alle logiche del profitto e per il persistere di leggi, come la 132/2018 (ex decreto Salvini), che hanno smontato il sistema di accoglienza, cancellato il permesso di soggiorno per motivi umanitari e spinto migliaia di beneficiari tra le braccia di caporali e sfruttatori, come anche lo studio «I sommersi dell’accoglienza» di Amnesty Italia dimostra.

«Il primo maggio è la festa del lavoro – continua Paola – voglio dire che per me e molti braccianti che ho conosciuto il lavoro è schiavitù anche durante questa pandemia. Il governo parla di difesa della salute ma dimentica che per i braccianti la salute è sempre stata un lusso, il contratto una concessione e che moriamo spesso giovani. Se la polizia controllasse i magazzini delle aziende troverebbe veleni di ogni genere che noi lavoratori paghiamo presto o tardi con tumori che ci portano via in pochi mesi. Altro che mascherine obbligatorie». Secondo la Flai Cgil sono circa 430 mila i braccianti in Italia reclutati mediante caporale e sfruttati, di cui 132 mila in condizioni paraschiavistiche.

E più di 300 mila lavoratori agricoli, ovvero quasi il 30% del totale, lavora meno di 50 giornate l’anno. Tutto questo da anni e ancora in questa fase. «Il padrone quando ci sono le elezioni ci dice anche per chi votare – conclude Paola – e spesso è il partito di Fratelli d’Italia e la Lega». Così lavorano i braccianti italiani e stranieri in molte aziende agricole anche durante questa pandemia sanitaria.