Cronache da Poggioreale, dove in una cella ce ne stanno quindici, un metro quadro a testa, e dove i secondini spaccano teste e ossa senza una ragione. Giusto per provare che lì comandano loro. Cronache da Scampia, dove il Sistema, come chiama la Camorra chi ci deve campare dalla culla alla tomba, detta legge e si può finire ammazzati per uno sguardo storto o una parola di troppo detta a chi lì comanda. Cronache da San Patrignano, che per qualcuno poteva essere persino peggio di Poggioreale, perché dietro le sbarre almeno un sospiro di autonomia ti resta ma con gli angeli custodi di don Vincenzo Muccioli manco quello, e da Villa Literno, dove i neri tirano l’anima coi denti, campano in baracche che nemmeno nei quartieri degli schiavi, si fanno il mazzo dall’alba al tramonto e si devono pure sorbire le mazzate e le vessazioni a gratis di chi ci tiene a far sapere chi comanda nelle nuove piantagioni.

Il cronista si chiama Gaetano Di Vaio e non parla per sentito dire. Oggi fa il produttore e pure di successo, è stato attore, e in tutte le vesti, come adesso in quella di scrittore, ha raccontato Napoli: il Bronx d’Italia. Ieri spacciava bustine a ritmo di catena di montaggio e del maledetto carcere di Napoli, come della ridente comunità di Muccioli, è stato poco gradito ospite: le ha odiate tutte e due, ma la comunità più della galera. Gli dà una mano, ed è una mano salda, Guido Lombardi, che di mestiere fa il regista e ha diretto l’ultimo film film prodotto da Di Vaio, Là-Bas, Leone del Futuro a Venezia.

Storia di un sopravvissuto

Forse non sono cose che si raccontano ai nipoti, ma volendo Gaetano Di Vaio potrebbe un giorno vantarsi di aver portato a termine due missioni impossibili. La prima: essere rimasto indipendente, e vivo, nella città dannata dove al servizio del Sistema tutti quelli che stanno al di fuori della legge devono in qualche modo mettersi. La seconda: essere scampato al destino di tutti quelli che, in quelle terre, al bivio tra servire e delinquere scelgono la seconda strada. Di se stesso Gaetano Di Vaio parla come di un sopravvissuto. Non esagera, né pecca di facile retorica.

Il girone infernale in cui ha raccolto le cartoline esposte in questo bellissimo Non mi avrete mai (Stile libero Einaudi, pp. 335, euro 17.50) è lo stesso che ha provato a raccontare Roberto Saviano. E tuttavia è l’opposto. Quanto il santo dell’anticamorra è rassicurante, perennemente retorico, immancabilmente prevedibile, tanto il sopravvissuto di Scampia è sottilmente inquietante, puntualmente originale, perennemente fuori dagli schemi.

Vista con gli occhi di Saviano, Gomorra è un postaccio, certo, che però aiuta a sentirsi in pace con se stessi tutti quelli che non devono campare la vita in quelle strade. I confini tra il Sistema oscuro che domina da quella parte del muro e quello che impera in piena e democratica luce dal nostro lato sono tenui, osmotici, spesso valicati, ma solo perché la corruzione ha esteso i suoi tentacoli anche nel cuore dello Stato che dovrebbe combatterla. Senza quelle commistioni torbide e quelle complicità un sano sistema democratico potrebbe combattere e facilmente aver ragione dell’altro Sistema, quello che di sano non ha niente. Chi corrotto e complice non è può così sentirsi a posto. Indignarsi a piacimento. Illudersi di combattere il male quando strepita invocando un po’ di repressione in più. Prendersela con gli scalzacani finiti in Parlamento per caso o grazia ricevuta e immaginare di aver individuato il cuore della bestia.

Proprio perché guardano le Southcentral d’Italia con quello sguardo limpido e bugiardo, non si sa se più superficiale o ipocrita, i disgraziati a cinque stelle possono proporre di risolvere la tragedia delle italiche galere riaprendo Pianosa o l’Asinara (sic) e sentirsi fieri paladini non solo della legalità ma persino della giustizia. Per la stessa ragione i paladini della legalità possono restare imperturbati quando i loro eroi in divisa o toga ci vanno giù pesante con le mazze, i rinvii a giudizio e le sentenze. Effetti collaterali di una guerra che resta santa.

Alla fonte del disastro

Il racconto piano di Di Vaio va più a fondo. Illumina il gioco di specchi, nemmeno troppo deformanti, per cui il sistema democratico si riflette nel Sistema. Rintraccia la fonte del disastro nell’esercizio vessatorio di un potere che non conosce e non teme controlli e riduce le persone a sudditi. I cittadini per bene che chiudono tutti e due gli occhi sull’oscenità di Poggioreale, si sfastidiano a tenere il conto dei detenuti che muoiono nella patrie galere, si tappano le orecchie per non sentire le urla dei pestati e umiliati in carcere o nei campi di Villa Literno sono agenti del Sistema. Strumenti inconsapevoli e gratuiti del potere dei clan delle famiglie e delle cosche. Scampia non è il focolaio d’infezione. È il sintomo.

Ma quando si sono seduti al tavolino, Di Vaio e Lombardi non volevano buttare giù un trattato di criminologia, né rifugiarsi dietro il comodo riparo dell’argomento forte che esime chi scrive dal dovere di farlo come si deve. Partendo dal racconto di una biografia a modo suo esemplare hanno invece partorito un romanzo strepitoso, capace di mischiare azione e analisi, comicità e tragedia, di far parlare i fatti e non le opinioni. Quanto di più vicino sia uscito, da noi, al grande Ed Bunker di Educazione di una canaglia o del capolavoro Little Boy Blue, con in più un uso magistrale del dialetto, soprattutto nei dialoghi, che lacera la cappa d’irrealismo che condanna la narrativa italiana ad affiancare la realtà senza quasi mai riuscire davvero a rispecchiarla.

I politici, i giornalisti e gli opinionisti dovrebbero leggere questo libro per intuire cosa non capiscono del Paese che pretendono di governare, descrivere o indirizzare. Il 90% almeno degli autori, di noir e non solo, dovrebbero leggerlo per scoprire come si può scrivere.