Come se niente fosse. O quasi. Dopo che il massacro di manifestanti inermi dello scorso 3 giugno ha bruscamente interrotto i negoziati tra la giunta militare salita al potere due mesi fa e il composito fronte di forze sociali e politiche che insiste per un governo di transizione civile e democratico, il terzo giorno di sciopero generale e di «disobbedienza civile totale» in Sudan è andato in scena senza esitazioni: strade deserte, negozi chiusi, uffici vuoti, l’adesione è stata anche ieri massiccia malgrado il ripetersi di intimidazioni e arresti – ad esempio nel caso dei lavoratori dell’aeroporto internazionale di Khartoum.

Niente in confronto a quanto sarebbe accaduto nel Darfur centrale, secondo quanto denunciano il sito d’informazione Al Rakoba e l’Associazione dei professionisti sudanesi, l’organizzazione di medici, avvocati, giornalisti e altri settori che ha guidato fin dall’inizio le mobilitazioni in tutto il paese: l’adesione del villaggio di Dilig alla protesta nazionale sarebbe stata punita dalle tristemente note milizie Janjaweed con una strage.

Non per niente si parla di Janjaweed 2 per identificare le forze che lunedì scorso hanno brutalmente represso il sit in dei manifestanti nella capitale, uccidendo oltre 100 persone e gettandone in molti casi i corpi nel Nilo. Ora si chiamano Rapid Support Forces e a guidarle è sempre il generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemeti”, uomo forte dell’attuale Consiglio militare di transizione (Tmc), il primo dei fedelissimi di Bashir a scaricarlo, sempre in prima fila – dal Darfur allo Yemen – quando c’è da menare le mani.

Da parte sua il Tmc, eccetto il tentativo maldestro di addossare ai dimostranti il saccheggio di una clinica oftalmica compiuto in realtà dalle Rsf e le limitazioni imposte al funzionamento della rete, sembra di nuovo in balìa degli eventi. E sembra mostrare la corda il tantativo acrobatico, dopo aver deposto il presidente Omar al Bashir, di mantenere inalterato lo «stato profondo» del vecchio regime e allo stesso tempo intestarsi la rivoluzione maturata nelle strade, in mesi e mesi di manifestazioni di massa. Pressato da ogni dove e sospeso dall’Unione africana, il Tmc ora deve anche sopravvivere all’opera di persuasione che gli Stati uniti stanno facendo su Emirati e Arabia saudita per rendere un po’ meno incondizionato il loro appoggio alla giunta, fin qui naturale ricompensa per i servigi resi sullo scenario bellico yemenita dall’esercito sudanese.

Comincia forse a sortire effetti anche il tentativo di mediazione avviato dal premier etiope Abiy Ahmed, presidente di turno dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), organismo regionale che ha tra i suoi scopi anche la «prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti», che altrimenti la fiducia dei paesi donatori scricchiola. Ahmed dopo una lunga telefonata con il capo dei generali Abdel Fattah al Burhan ha invitato l’opposizione a procedere, appunto, come se niente fosse, in base al percorso delineato dai colloqui prima dell’ultimo, traumatico stop.

Quindi ieri è stato anche il giorno dell’annuncio che presto le Ffc presenteranno i loro nomi per il Consiglio sovrano, l’organo esecutivo che dovrebbe gestire il potere da qui alle elezioni, da tenersi entro tre anni. Per la figura di premier è in vantaggio l’ex segretario esecutivo della Commissione economica dell’Onu per l’Africa (Uneca), Abdalla Hamdok.