Se Jacob Zuma – il presidente sudafricano più discusso del ventennio post-apartheid – promulgasse la legge, potrebbe concludere il suo mandato vantando l’attuazione di uno dei progetti-pilastro dell’African National Congress (Anc) sin dal suo insediamento nel 1994. Giovedì scorso il Parlamento sudafricano ha approvato un disegno di legge che consente allo Stato di espropriare per «interesse pubblico» – dietro corrispondenza di un compenso «giusto ed equo» determinato da un giudice di nomina governativa – terreni di proprietà privata. Ossia le terre in mano ai bianchi.

Se molti esperti rassicurano che non si tratti di un via libera a una confisca selvaggia e violenta sul modello della riforma agraria di Mugabe nel vicino Zimbabwe (dove le aziende agricole di proprietà dei bianchi sono state espropriate dal governo per essere redistribuite ai neri), dall’altro alcuni economisti temono che la riforma potrebbe colpire gli investimenti e la produzione in un periodo difficile per il paese, già impegnato ad affrontare la peggiore siccità in almeno un secolo. Non solo. In passato a sollevare preoccupazioni sulle proposte di legge (susseguitesi dal 2008) su un’equa distribuzione dei terreni agricoli (per la stragrande maggioranza di proprietà dei bianchi, meno di un decimo della popolazione totale) sono state anche associazioni per i diritti perché temono che i provvedimenti potrebbero rivelarsi incostituzionali.

E sarebbe proprio l’accezione di «pubblico interesse» che se non altrimenti ben chiarita potrebbe spianare la strada a espropri arbitrari. Un secolo fa, sotto il dominio britannico, il South Africa’s 1913 Natives’ Land Act assicurò l’87% di tutte le terre alla minoranza bianca e il 13% ai neri. Rapporti di proprietà diseguali che due decenni di governo dell’Anc non sono riusciti a disarticolare, benché fosse una priorità del partito sin dal 1994, anno delle prime elezioni libere e dell’elezione di Nelson Mandela primo presidente nero del Sudafrica. Proprio i piani elaborati sotto la presidenza di quest’ultimo prevedevano la cessione ai neri del 30% dei terreni agricoli commerciali entro il 2014. Ad oggi invece il totale dei terreni restituiti ammonta a solo un terzo di quel 30%.
Probabilmente tra le ragioni che non hanno aiutato a raggiungere il target stabilito c’è lo schema che sostiene le normative e cioè il cosiddetto «willing buyer, willing seller» che lascia più margine di negoziazione ai proprietari e agricoltori bianchi che accettano di negoziare piuttosto che ai «beneficiari».

Schema che nel disegno di legge appena varato viene sostituito con la figura del giudice di nomina governativa che stabilisce il compenso del terreno da espropriare. La redistribuzione delle terre è una delle problematiche cardine delle ingiustizie razziali, sociali ed economiche e più di altre rappresenta il retaggio degli anni bui dell’era coloniale e dell’apartheid. Una delle prime leggi approvate dal primo governo democratico nel 1994 fu il Restitution of Land Rights Bill volto a restituire i terreni a coloro che ne erano stati espropriati durante il regime.

Nel 2014 con il Restitution of Land Rights Amendment Act, Zuma ha riaperto i termini per fare richiesta di restituzione dei terreni riconoscendo un problema di fondo, ovvero che tra il 1995 e il 1998 molti degli abitanti delle zone rurali non erano riusciti a raggiungere i 14 uffici, dislocati per lo più nei centri urbani, per presentare domanda. Da aprile 2015 per iniziativa della Commission on Restitution of Land Rights più di centomila famiglie delle aree rurali remote sono state raggiunte da uffici su quattro ruote, specializzati nella rivendicazione territoriale e in grado di raccogliere circa 27. 000 richieste di restituzione di terreni. A inoltrarle sono tutti quei sudafricani espropriati delle terre dopo il 19 giugno 1913, data dell’entrata in vigore del Natives Land Act che impediva ai sudafricani neri di possedere terra al di fuori di riserve designate che con la legislazione successiva forzò milioni di persone a trasferirsi nelle township di lamiera.