Poco meno di un secolo fa, un grande meridionalista come Guido Dorso auspicava per il Mezzogiorno la nascita di una classe dirigente di grande rigore morale, capace di «distruggere le cause della sua inferiorità da se stesso» grazie alla spinta propulsiva dei suoi figli migliori. Oggi, trascorsi il fascismo e un lungo dopoguerra, sepolta la Prima Repubblica e affievolitosi l’abbaglio del berlusconismo, l’impressione è che quell’auspicio inattuato sia diventato un’urgenza.
Pur non menzionando espressamente l’autore di La rivoluzione meridionale, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, in Se muore il Sud (“Fuochi” Feltrinelli, pagg. 315, euro 19) per diversi aspetti si muovono sulla stessa falsariga. La fortunata coppia anti-casta, cementata sulle pagine del Corriere della Sera, mette sul banco degli imputati proprio quella classe dirigente «che lascia affondare un pezzo dell’Italia». L’analisi dei due giornalisti, non priva di affetto verso il Sud ma proprio per questo impietosa, prende di mira le élite meridionali, quella classe politica che non ha fatto nulla per arginare il declino e far sì che la storia di un pezzo d’Italia non si trasformasse in un cahier de doléances di occasioni perdute. Piuttosto, essa è stata protagonista in negativo, complice e più spesso attiva promotrice dello scempio sistematico del territorio e del sacco di risorse, statali ed europee. Chi è abituato agli articoli e ai libri di Rizzo e Stella sa bene come essi siano una brillante combinazione di dati che inquadrano i fenomeni raccontati e aneddoti che li concretizzano. Così, i 677 mila euro per il Festival del peperoncino calabrese o il contributo alla sagra del taratatà a Casteltermini, in Sicilia, diventano l’emblema della grande illusione svanita di trasformare finalmente il Mezzogiorno attraverso i fondi comunitari, com’è invece riuscito all’Estonia. E le centinaia di sperperi, inefficienze e ritardi innaffiati di belle parole, scandali internazionali come quello di Pompei che cade a pezzi o il paesaggio della Terra di lavoro campana che oggi risulterebbe irriconoscibile agli occhi di scrittori come Goethe e Dickens che ne magnificarono le bellezze, compongono un puzzle devastante che getta di certo più di un’ombra su chi ha governato queste terre, ma dovrebbe spingere a interrogarsi anche sulla disgregazione morale e sociale che è stata causa ed effetto, allo stesso tempo, di cotanto scempio. Andrebbe tracciato un bilancio anche del fallimento dell’idea che la modernizzazione industriale avrebbe emancipato le popolazioni meridionali da ogni residuo feudale: a Bagnoli, ammettono Rizzo e Stella, dopo l’Ilva c’è stato il nulla. Bisognerebbe chiedersi infine perché l’arricchimento diffuso non ha giovato alla crescita collettiva ma piuttosto ha fornito linfa all’individualismo piccolo-proprietario, lo stesso che comporrà il «blocco edilizio» fotografato nel 1970 da Valentino Parlato sulla Rivista del manifesto: una formazione sociale composta da piccoli proprietari, grandi speculatori e ricchi possidenti, votata politicamente alla conservazione, alla rendita e all’immobilismo sociale che ha cambiato irrimediabilmente i connotati al territorio e ancora oggi fa sentire tutto il suo peso quando si tratta, ad esmpio, di tassare la proprietà privata e le abitazioni.
L’opinione di Rizzo e Stella è che oggi lo spread tra Nord e Sud d’Italia è «per molti aspetti più angosciante di quello con la Germania». Vale la pena riepilogarlo: i diplomati meridionali sono il 31,7 per cento, quelli centrosettentrionali il 56. I laureati meridionali che hanno un lavoro il 48,7 per cento, quelli centrosettentrionali il 71. La disoccupazione giovanile è a livelli da allarme rosso: i cosiddetti “neet” – not in education, employement or training – persone che non cercano nemmeno più un lavoro, sono un milione e 850 mila, il 9% della popolazione. Un esercito a disposizione delle mafie o della depressione. Secondo la Confartigianato, la Campania è la regione d’Europa con il minor tasso d’occupazione: lavora appena il 39,9% degli abitanti. Infine, l’Istat ci dice che il 48% dei meridionali è a rischio povertà.

Si tratta di un’emergenza che dovrebbe preoccupare, e non poco, qualsiasi governo, non fosse altro perché una simile gigantesca zavorra sta trascinando a fondo tutta l’Italia. Invece, l’annosa “questione meridionale” è consegnata al peggiore meridionalismo di ritorno, intriso di vittimismo e nostalgie neoborboniche, rancori anti-unitari fuori tempo massimo e miti infondati: ritorni di fiamma che Rizzo e Stella hanno il merito di demolire senza mezzi termini.

Come aveva già sostenuto di recente lo storico Francesco Barbagallo in La questione italiana (Laterza editore), i due autori ritengono che quello meridionale sia un problema nazionale, non fosse altro perché il gap tra le due parti del Paese ha ripreso a crescere a un ritmo insostenibile e che il male anche il Nord si meridionalizza sempre più. Basta leggere il capitolo dedicato alla mafia a Milano: sono 26 i “locali” della ‘ndrangheta censiti dalla Commissione antimafia, a livelli quasi calabresi. Eppure, il problema non può essere solo economico. Se è vero, come ci dice sempre Barbagallo, che dall’Unità d’Italia a oggi l’unico periodo in cui il divario tra le due Italie si è ridotto è stato quello del boom economico a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, è altrettanto vero, come ci spiega Vezio de Lucia nel suo Nella città dolente (Castelvecchi editore), che è stato proprio in questo periodo che è cominciato il più grande saccheggio del territorio che la storia d’Italia abbia mai conosciuto, immortalato nel suo nascere da Francesco Rosi in Le mani sulla città.
Il Sud è irrimediabilmente perduto, dunque? Le pagine di Stella e Rizzo consegnano al lettore la sensazione che non ci sia molto in cui sperare: una classe politica inetta e corrotta, un deficit di cultura democratica che non si riesce a sanare, grovigli di clientele e affarismi difficili da sbrogliare. Nonostante tutto, i due giornalisti non si iscrivono al partito dei tagli: «Un paese serio avrebbe fatto di più per il Mezzogiorno», scrivono. «Ci avrebbe investito con impegno. In scuole, infrastrutture, strade, politiche giovanili che dessero sfogo alle intelligenze scintillanti di tanti ragazzi del Sud. Ma nulla è stato peggio che lasciare ai politici più spregiudicati, ai feudatari della burocrazia e ai capibastone mafiosi la gestione ricattatoria, clientelare ed elettorale delle indennità per i tanti braccianti». È accaduto invece che le menti migliori siano state costrette ad andar via e a lasciar campo libero a un sistema feudale, mafioso, contraddittorio nel suo presentarsi come ipermoderno senza essere entrato a pieno nella modernità.
Ma si può ricondurre tutto alle responsabilità delle sole classi dirigenti? Alla cerimonia di consegna del premio Volponi, lo scorso 30 novembre a Porto Sant’Elpidio nelle Marche, lo scrittore partenopeo Ermanno Rea ha adombrato la possibilità di una tara antropologica, già fatta risalire in La fabbrica dell’obbedienza, con l’aiuto di un grande filosofo napoletano dell’800, Bertrando Spaventa, agli effetti deresponsabilizzanti della Controriforma cattolica. «Il giorno in cui vedrò un napoletano fermarsi a un semaforo alle 3 di mattina, con la strada sgombra, vorrà dire che gli italiani sono guariti», ha detto in quella occasione. Un altro grande scrittore partenopeo, Raffaele La Capria, in L’armonia perduta se la prende con la «piccola borghesia», disposta a ogni compromesso per paura di finire vittima della «reazione», come nella rivoluzione mancata del 1799.
Il fantasma di Francesca Spada, la protagonista di Mistero napoletano di Ermanno Rea, ne La comunista torna a Napoli per consegnare allo scrittore il suo messaggio: il Mezzogiorno riuscirà a salvarsi solo se avrà «l’entusiasmo dell’impossibile», vale a dire la capacità di riprendere a immaginare un futuro, di costruire un’utopia. Rizzo e Stella, più concretamente, sostengono che il Sud si trova davanti a un bivio: proseguire con il solito andazzo e morire. O ricominciare. Tornando a sognare, dandosi degli obiettivi ambiziosi e puntando sui propri figli migliori. Rompendo «le catene clientelari con la più vecchia, scadente e corrotta classe politica del mondo occidentale» e spezzando quel patto scellerato che ha consentito al peggior ceto dirigente del Nord di accordarsi, come scrisse Gaetano Salvemini un secolo fa, con il peggior ceto dirigente del Sud. Se così non accadrà, a essere perduta sarà tutta l’Italia. Oggi, come un secolo fa, si auspica una rivoluzione che sia opera degli stessi meridionali. «Sarà questa», concludeva Guido Dorso, «la vera rivoluzione».