Alle 9 di mattina, Albaro Torri ha già preparato formaggi e ricotte freschi con il latte di pecora appena munto da Giovanni e Piera Petronella, gli unici due immigrati di Succiso, rumeni. Ha dismesso il camice bianco che indossava al caseificio per montare sullo scuolabus e fare il giro del paese per raccogliere gli studenti. Poi è tornato su per rimettere a posto e, visto che gli rimaneva un po’ di tempo, ripulire e voltare i formaggi messi a stagionare («almeno tre mesi») e fare una passata di olio su quelli pronti a essere messi in vendita all’agriturismo che gestisce con i soci-compaesani. Ora lo ritrovo dietro al bancone del bar a servire caffè agli avventori, gente del paese e operai di passaggio durante la settimana, amanti della natura nei week end, ex concittadini emigrati in città durante l’estate. Alle 11 di mattina, non si è fermato un minuto.

IL LAVORO NON LO SPAVENTA. Dopo tredici anni di catena di montaggio alle Officine Reggiane, avere a che fare con 270 pecore piuttosto che con l’amianto gli risolleva il morale. La prospettiva di contribuire a salvare il paese in cui è nato da una fine certa piuttosto che di combattere per salvare il posto di lavoro dai ridimensionamenti e dalle cessioni aziendali gli conferisce un’energia insospettata in un uomo di mezza età. Mi trovo di fronte a un caso di cultura operaia novecentesca messa al servizio di una causa non meno nobile di quella legata alla produzione industriale: la battaglia contro lo spopolamento che, come scrive l’antropologo Vito Teti in Quel che resta (Donzelli editore), è «la cifra delle aree interne di numerose regioni d’Italia e d’Europa».

A SUCCISO, 980 metri sull’Appenino reggiano, a metà strada tra la Lunigiana e il capoluogo, sono rimasti in appena 62. Fino agli anni Settanta ci vivevano un migliaio di persone e seimila pecore. La transumanza spostava i pastori verso la Pianura padana, fino a Mantova, però poi tutti tornavano a casa. Da quando il borgo antico ha cominciato a franare, è cominciata una lenta emorragia. Le case sono state abbandonate, le stalle chiuse una dopo l’altra e per i sempre più pochi resistenti sembrava non esserci alternativa all’abbandono.

OGGI CHE IL VILLAGGIO, a 21 chilometri di curve e saliscendi dal comune a cui fa capo, Ramiseto, è stato recuperato dagli abitanti rimasti, a studiare il modello Succiso arrivano da tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Corea, persino da Birmania e Swaziland. Ultima in ordine di tempo, si è presentata quassù una delegazione giapponese, che voleva capire com’è stato possibile che l’intera comunità sopravvissuta all’esodo sia riuscita a invertire un trend che pareva irreversibile, al punto che i cittadini andati via stanno ristrutturando le case abbandonate, nei week end c’è il pienone di amanti del cibo e della montagna, arrivano le gite scolastiche e ogni estate il paese torna a essere abitato da non meno di cinquecento persone.

Succiso ha invertito la rotta e richiama vecchi e nuovi abitanti, nel segno della sostenibilità ambientale e di quello che in America Latina definirebbero «buen vivir», vale a dire attenzione al territorio, buon cibo e alta qualità della vita, lontano dalle difficoltà e dallo stress delle grandi città.

LA SOLUZIONE L’HANNO TROVATA nella loro cultura sociale e politica, inventandosi un modello economico diverso a partire dalle sue radici rosse. Succiso è il primo e unico caso al mondo di paese in cooperativa. Mettendosi insieme, cinquanta abitanti su sessantadue (praticamente tutti, se si escludono bambini e anziani) hanno riaperto una stalla con 270 pecore allevate allo stato brado, producono formaggi e ricotte con il marchio Pecorino dell’Appennino reggiano, fondando la ricetta tradizionale con quella perfezionata dall’università di Modena, Reggio e Bologna, hanno messo in piedi un agriturismo dal quale partono percorsi tra i boschi che arrivano fino ai duemila metri. Inoltre, organizzano escursioni e gite didattiche per turisti e scolaresche.
Soprattutto, hanno rimesso in funzione il bar dal quale Albaro Torri racconta la sua storia, tra un caffè e un aperitivo, perché da queste parti senza un luogo di aggregazione sarebbe stato impossibile ricostruire la comunità. Ora a Succiso non manca nulla: il pane, che arrivava un paio di volte alla settimana su ordinazione, è prodotto da loro quotidianamente. La spesa si può fare a una bottega di generi alimentari, l’agriturismo è sempre in funzione e hanno sistemato pure il campo di calcio. Sono riusciti persino a far riaprire la scuola, che aveva chiuso per mancanza di bambini.

Quassù è arrivato pure il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che da ex presidente di Legacoop conosce l’argomento e il territorio e ha parlato di «cooperativa-paese». Loro preferiscono definirsi una «cooperativa di comunità». Lo scopo sociale era semplice e chiaro: «Salvare Succiso» dall’abbandono, fornendo servizi sociali e creando lavoro per gli abitanti. Un modello giuridico che non esiste in Italia e che forse potrebbe essere raccolto per vincere la sfida dello spopolamento delle aree interne e, loro ne sono convinti, per rimettere in sesto, socialmente ed economicamente, le zone terremotate di Abruzzo, Marche e Umbria. Il presidente della cooperativa Dario Torri crede che il modello Succiso debba essere esportato: «Se si desertifica socialmente l’Appennino, i problemi li sentiranno pure a valle», dice. Il loro lavoro di cura del territorio, sostiene, è un argine alle frane e alla deforestazione. Per questo auspica una legislazione speciale, che preveda agevolazioni per chi rimane e per le cooperative di comunità, che in zone come questa possono svolgere un’importante funzione di collante socio-economico.

I NUMERI GLI DANNO RAGIONE: la cooperativa gestisce i servizi pubblici, dal verde al trasporto degli studenti, si occupa di tenere puliti prati e sentieri e dà lavoro agli abitanti: il solo l’agriturismo, con 14 mila presenza all’anno e 700 mila euro di fatturato, impiega sette persone, più dodici stagionali. Numeri mai visti, in un posto come questo fuori da ogni rotta.