Herman Melville iniziò la stesura di Pierre o le ambiguità, il suo settimo romanzo in sette anni, nell’agosto del 1851, alla vigilia della pubblicazione di Moby-Dick. Mentre era al lavoro sulla nuova opera, ebbe modo di leggere le recensioni, in generale assai poco lusinghiere, dedicate dalla stampa americana e britannica a quello che solo parecchi decenni più tardi sarebbe stato consacrato come il suo capolavoro. Allo stesso tempo, poté rendersi conto del fatto che Moby-Dick si avviava a essere un nuovo insuccesso commerciale e che la sua ambizione di guadagnarsi da vivere come scrittore continuava a scontrarsi con la natura del pubblico e del mercato editoriale dell’epoca. Non per nulla, un paio di anni prima, in una lettera al suocero Lemuel Shaw, giudice della Corte Suprema del Massachusetts, Melville aveva affermato che «il mio più grande desiderio è scrivere quel genere di libri di cui si parla come ‘fallimenti’».

Con questo Melville non intendeva suggerire di essere indifferente alla popolarità. Quando le reazioni negative a Mardi, il suo terzo romanzo, ne avevano sensibilmente incrinato l’immagine di astro nascente della letteratura americana – una considerazione guadagnata col successo dei romanzi «polinesiani» Typee e Omoo – Melville aveva accettato di tornare al più vendibile «realismo» delle prime opere. Pur lamentandosi in privato che Redburn e Giacchetta Bianca – i due romanzi che precedono Moby-Dick – altro non erano senon «due lavori, che ho fatto per soldi – essendoci costretto, così come altri sono costretti a segare il legno», Melville si rendeva conto della necessità di un compromesso tra gli impulsi della sua immaginazione unita all’esuberanza del suo stile, da un lato, e le aspettative del pubblico, dall’altro.

Con Moby-Dick Melville aveva cercato un punto di equilibrio tra una trama avventurosa (la caccia di Ahab alla Balena Bianca) e le speculazioni filosofiche e pseudo-scientifiche affidate a Ishmael, il narratore. Una volta constatato il fallimento del progetto in cui aveva investito febbrilmente tutto se stesso, Melville dovette sentirsi ancor più motivato nella sua decisione di abbandonare il romanzo di ambientazione marinara per cimentarsi con il genere di successo dell’epoca, la narrativa sentimentale.
Pierre rappresentava dunque il tentativo di fare breccia in un mercato editoriale dominato da quella che Nathaniel Hawthorne, cui Moby-Dick era stato dedicato, aveva descritto come «una maledetta marmaglia di scribacchine».

Offrendo al pubblico non un’ennesima «ciotola di acqua salata» bensì «una ciotola di latte campestre» – come scrisse in una lettera indirizzata proprio alla moglie di Hawthorne, Sophia – Melville pareva mosso dal sincero desiderio di conquistarsi nuovi lettori. Eppure, lungi dal confezionare un testo che andasse incontro ai gusti di un pubblico che non gradiva speculazioni ardite su temi di natura morale e religiosa, Melville produsse un’opera che non solo sollevava un tema torbido come l’incesto, ma sparava a zero sui critici, i lettori e gli stessi scrittori dell’America contemporanea.
Il dramma familiare del giovane Pierre, che da rampollo di agiata famiglia precipita verso la miseria e una fine tragica per venire in soccorso alla misteriosa Isabel, che egli è «intimamente convinto» sia la figlia illegittima del defunto padre, è difatti intrecciato al racconto del suo disperato tentativo di affermarsi come scrittore. Ma le sue ambizioni artistiche sono così titaniche da sfiorare il ridicolo. «Offrirò al mondo un nuovo vangelo», proclama Pierre invasato, «mostrando agli uomini segreti più profondi dell’Apocalisse!».

Per quanto, sin dalla riscoperta di Melville negli anni venti del secolo scorso, il romanzo sia stato sovente letto in chiave autobiografica, il narratore ironizza pesantemente sulle aspirazioni artistiche del protagonista, pur ricorrendo ripetutamente a un linguaggio altrettanto esagerato e grottesco. Non sorprende dunque che più di un critico abbia suggerito che Melville, frustrato dal sostanziale insuccesso di Moby-Dick, sarebbe stato colto da una cupio dissolvi poi sigillata dalle recensioni dei contemporanei. Il «New York Day Book» titolò il suo pezzo su Pierre «Herman Melville impazzito», e il tono era tutt’altro che scherzoso. Che il libro fosse ributtante, indecente, spazzatura, venne ripetuto da un commentatore dopo l’altro. Tranne rare eccezioni, è solo nel secondo dopoguerra che la discussione sul romanzo assumerà contorni seri, fermo restando che ancora oggi i giudizi restano discordi, soprattutto per quanto concerne la struttura e lo stile dell’opera.

La ripubblicazione della versione italiana di Pierre o le ambiguità, da parte di Medusa, in un’edizione assai ben curata da Vincenzo Fidomanzo (pp. 443, euro 28,00) va dunque salutata come un atto coraggioso e degno di plauso. Con una breve prefazione di Claudio Gorlier e una postfazione nella quale il curatore ricostruisce il dibattito critico intorno al libro, l’edizione ripropone la storica traduzione di Luigi Berti per Einaudi del 1942, che Fidomanzo non ha ritenuto di rivoluzionare, pur proponendosi «con piccole, ma numerose modifiche, di rendere la traduzione più adatta al lettore del XXI secolo, tentando nel contempo di non dissolvere il sapore letterario di uno scritto concepito nella metà del XIX».

L’obiettivo è pienamente raggiunto, nonostante le difficoltà linguistiche che il romanzo pone, non solo per ricchezza lessicale e per l’ampiezza di registri e di tonalità di non sempre facile decifrazione, ma per la presenza di un sensibile numero di neologismi. Forse in qualche frangente le revisioni del curatore avrebbero potuto andare più a fondo: per esempio il «sono molto dispiacente» di Berti avrebbe meritato di essere ritoccato, così come il termine «sacerdote» riferito a un pastore protestante. Ma sono dettagli che nulla tolgono a una curatela appassionata e puntuale, impreziosita da una nota che ricostruisce il carteggio tra Berti e Giulio Einaudi su Pierre.

Oltre a fornire uno spaccato assai interessante del mondo editoriale di quegli anni, il carteggio getta luce sui rapporti complessi, e a tratti molto tesi, tra un editore curioso e ambizioso come il giovane Einaudi e un traduttore assillato da preoccupazioni di ordine economico, ma risoluto nel difendere la bontà del proprio lavoro, anche di fronte a un misterioso revisore (forse Cesare Pavese, ipotizza il curatore) che per conto dell’editore aveva sollevato più di una perplessità sulla versione di Berti.
Nel discutere della (s)fortuna critica di Pierre, Fidomanzo mette giustamente in guardia dall’attribuire eccessiva importanza al tema dell’incesto. Certo, il matrimonio del protagonista con quella che ritiene sia la sorellastra, pur presentato come un formale quanto bizzarro e scellerato «atto riparatore» volto a salvaguardare il buon nome del padre, non smentisce l’attrazione magnetica tra Pierre e Isabel, ma è il sottotitolo del romanzo a segnalare limpidamente le sue principali preoccupazioni.
Sono le ambiguità e la contraddittorietà di ogni gesto, ogni valore, ogni segno a disorientare il protagonista e a essere costantemente chiosate da un narratore che, se attacca la società gretta e ipocrita, capace di distruggere le mire estetiche di Pierre, non esita a prendersi gioco del suo sogno «evangelizzatore». Non sorprende che il testo abbia trovato i suoi più intelligenti interpreti tra quei critici capaci di coglierne le suggestioni proto-nietzschiane e anti-metafische, come Giuseppe Nori (nel suo La scrittura sconfitta, Bulzoni, 1986), e tra i decostruzionisti, abili a sottolineare la rete di segni cui restano impigliati protagonista, narratore e lettore, senza speranza alcuna di approdare a una Verità ultima. Difatti, «non è dell’uomo seguire le tracce della verità» nelle regioni iperboree, «perché così facendo egli perde del tutto la bussola che lo dirige e, una volta arrivato al Polo, di cui essa segna solo la desolazione, l’ago si volge indifferentemente verso tutti i punti dell’orizzonte».