Il profilo di un attore televisivo pubblicato su un settimanale letterario raramente offre spunti di polemica, specialmente se l’attore in questione non è una teen star planetaria, un fenomeno dei social media o un bad boy delle cronache tabloid. L’indignazione sollevata qualche settimana fa da un lungo articolo del New Yorker su Jeremy Strong – giudicato troppo negativo, nei confronti del soggetto – è un buon riflesso del rapporto tra il pubblico e la serie di cui Strong è coprotagonista, Succession.

GIUNTA alla terza stagione, conclusasi poco prima di Natale, la serie Hbo creata dall’inglese Jesse Armstrong (autore del copione del tranchantissimo In the Loop, di Armando Iannucci), e che include tra i suoi produttori il comico Will Ferrell, l’ex columinst del New York Times Frank Rich e il regista/sceneggiatore Adam McKay è, per il suo pubblico, un oggetto di devozione assoluta. Come sono oggetto di devozione i suoi tremendi personaggi principali – il tycoon murdochiano Logan Roy (Brian Fox), e i suoi tre figli, Kendall (Strong), Shiv (Sarah Snook) e Roman (Kieran Culkin), avvinghiati in una spasmodica lotta per la successione dell’impero, feroci quanto inetti.

SE il patriarca di Yellowstone John Dalton (Kevin Costner), in un episodio del serial in onda su Paramount Channel, viene definito «il re» della magnifica valle del Montana che ospita il suo ranch, nella casistica dei tiranni dell’industria, Roy Logan è decisamente un imperatore, alle redini della WayStar Royco, il conglomerate mediatico di portata globale tracciato sui contorni della Fox Corporation.
La prima stagione di Succession punteggiava il racconto di ammiccamenti riconoscibili alla storia, e a personaggi pubblici, di Rupert Murdoch e dei suoi figli. Ma la serie ha veramente acquistato la sua identità nelle stagioni successive, sganciandosi dalla cronaca e lavorando sulle iperboliche nevrosi e debolezze dei personaggi.
Nonostante gli aerei e le isole private, le telefonate in diretta con il presidente degli Stati Uniti, la corruzione planetaria e gli scandali – che occasionalmente riconducono i Roy a un fronte unito – Succession è una sitcom famigliare, in geniale bilico tra la tragedia shakespeariana e la satira, tra solennità e commedia demenziale. Iniziata con Kendall animato da una nuvola di fervore messianico/giustizialista che dichiara pubblicamente guerra a suo padre e si rende ridicolo per sempre tentando una performance rap «in volo» alla sua stravagante festa di compleanno, la terza stagione si conclude con puntate multiple ambientate in ville e paesaggi bellissimi della campagna toscana. L’occasione del viaggio in massa della famiglia Roy è il principesco nuovo matrimonio della madre dei ragazzi che, si scopre, in quanto a istinto materno è quasi abominevole come lo spietato ex marito.

NONOSTANTE le bizantine trame di conquista, che li vedono spesso uno contro l’altro, i Roy jr, sono sempre, invariabilmente, indietro rispetto al papà, che in questa stagione rischia veramente grosso solo quando Adrien Brody (uno dei tani giovani imprenditori che hanno il clout per affossare la compagnia o impadronirsene) lo porta a fare una passeggiata un po’ troppo lunga e un po’ troppo al caldo per il suo cuore affaticato.
I loro fallimenti a ripetizione sono parte del successo della serie, come gag. In tutta la sua aura di Lifestyle of the Rich and Famous, Succession è un una versione paradossale di Happy Days dell’un percento.