L’anatomia, intesa quale indagine sulla forma e la struttura interna degli esseri viventi, ha origine in campi estranei alla scienza medica e si basa sulla tecnica della dissezione, la cui pratica, a parte remote eccezioni, è documentabile soltanto dal XIV secolo. Questa lenta affermazione è imputabile a ragioni di carattere sia religioso che antropologico. «Il corpo è stato visto per molti secoli come entità chiusa, dalle mirabili forme esteriori ma abitato da interiora misteriose e inaccessibili. Col fiorire degli studi anatomici le prime dissezioni, guidate dall’osservazione diretta del chirurgo, si sono trovate a fare i conti con questi organi sconosciuti, ma al tempo stesso accompagnati da un potente apparato simbolico-mitologico, la cui decifrazione è ancora oggi complessa e talvolta sfuggente».
Dal canto suo, l’arte, osservando il corpo umano, le proporzioni delle sue diverse parti e le modificazioni delle stesse in rapporto ai movimenti e ai sentimenti, ha contribuito in maniera sostanziale ai progressi dell’anatomia. Circa il lungo sodalizio che per secoli arte e scienza hanno intrattenuto sul territorio comune della disciplina anatomica è in corso al Palazzo delle Esposizioni di Roma, fino al 6 gennaio, una mostra curata da Andrea Carlino, Philippe Comar, Anna Luppi, Vincenzo Napolano e Laura Perrone dal titolo Sublimi anatomie.
Per l’occasione, la rotonda centrale del Palazzo è invasa dalla ricostruzione di un teatro anatomico, sul modello di quelli storici di Padova o Bologna: un emiciclo di sedute in legno a gradini concentrici. Un tempo, oltre agli studiosi di medicina, a questi luoghi accedevano per assistere alle operazioni anche semplici curiosi. Qui, però, al centro del teatro non c’è nessun tavolo per autopsie, ma uno spazio sgombro, delimitato da due ampie lavagne: anziché all’analisi pubblica dei cadaveri, il teatro serve a ospitare gli eventi di un fitto calendario che, arricchendo con performance, lezioni e laboratori l’intera durata del periodo espositivo, è parte integrante e importante della mostra. Accanto alle lavagne sono collocati due gessi del Museo dell’Arte Classica della Sapienza – Università di Roma, l’Afrodite di Cirene e il Torso del Belvedere; mentre, sul lato opposto all’emiciclo, tra le colonne svetta il calco del celebre L’Ecorché (1767) di Jean Antoine Houdon, dall’Accademia di Francia a Villa Medici.
Il teatro è il fulcro di un percorso che si articola nelle sei sale circostanti secondo un criterio tematico improntato alla suggestione più ancora che alla divulgazione. È chiara la volontà di creare, attraverso inusuali accostamenti, delle metanarrazioni altrimenti inesprimibili; e l’effetto rasenta talvolta quello delle Wunderkammern. In tal senso, un esempio di forte impatto è dato dall’affinità visiva tra le fasce muscolari della schiena scuoiata di una donna, L’Ange anatomique (incisione tratta da Myologie complète en couleur et grandeur naturelle, 1746) di Jacques Fabien Gautier d’Agoty, e i nastri rossi di una tradizionale veste muliebre di Baranello.
Notevole il numero di artisti, scienziati e artigiani chiamati a rappresentare con le loro opere «il meccanismo mirabile della macchina umana e delle sue funzioni». Dalle tavole dei primi bellissimi trattati di Andrea Vesalio (De humani corporis fabrica, 1543), Albrecht Dürer e Leonardo Da Vinci, al grande atlante in sedici tavole colorate a mano, Nouvelles tables anatomiques (1678), opera dell’anatomista Amè Bourdon e dell’incisore Daniel Le Bossu. Affascinanti le figure femminili giacenti realizzate nel Settecento in ceroplastica – antica tecnica, usata a lungo in ambito funerario, devozionale e ritrattistico, e quindi tra XVIII e XIX secolo anche per la riproduzione a scopo didattico – dal Laboratorio dell’Imperiale e Reale Museo di Fisica e Storia Naturale di Firenze, oggi restaurate ed esposte per la prima volta al di fuori della Specola; o ancora, i manichini ottocenteschi scomponibili, costruiti in cartapesta da Louis Thomas Jerome Auzoux. Magnifica quanto macabra, la testa maschile plasmata da Gaetano Giulio Zumbo nel XVII secolo, come pure il seno femminile «pietrificato» (1823-’36) da Girolamo Segato, eccentrico inventore di un procedimento misterioso e mai più replicato – come ricorda l’epitaffio sulla sua tomba in Santa Croce: «Qui giace disfatto Girolamo Segato, che vedrebbesi intero pietrificato, se l’arte sua non periva con lui».
Tra una sala e l’altra il nesso tra produzione scientifica e ricerca artistica cambia. Allora disegno e modellato lasciano il posto alla diagnostica strumentale, condotta con mezzi sofisticati, mentre gli artisti rivoluzionano convenzioni tecniche e culturali, «ampliando la riflessione sulla forma e sulla liberazione del corpo, del pensiero e dell’identità». Così all’esemplare di mano in cera di Filippo Pacini per lo studio dei recettori cinestetici fanno da contraltare i video ipnotici di Yvonne Rainer (Hand Movie, 1966) e Dennis Oppenheim (A Feed-back Situation. Dennis and Erik Oppenheim, 1971), ovvero le sperimentazioni degli anni sessanta e settanta del XX secolo sul gesto e il segno. Del resto, l’intera struttura materiale dell’allestimento sembra rifarsi al concetto di «percezione aptica» (a cui infatti è dedicata una sezione), alludendo al sistema di relazioni che il corpo stabilisce con l’ambiente esterno tramite gli stimoli captati dalla pelle. Tra le opere contemporanee, spiccano la splendida «bottiglia» dalla sagoma organica di Gary Hill (Klein Bottle with the Image of Its Own Making – after Robert Morris, 2014), la sottoveste-pelle di Heidi Bucher (The Hatching of the Parquet Dragonfly, 1983), lo scheletro genuflesso in preghiera di Marc Quinn (Waiting for Godot, 2006).
In Sublimi anatomie è evidente e dichiarato lo sforzo di dare attuazione concreta a un format in grado di richiamare pubblici eterogenei, cercando di presentare assieme alla complessità di un argomento potenzialmente immenso – attestata dalla quantità di rimandi eruditi nei pannelli esplicativi: Galeno, Areteo di Cappadocia, Ignazio di Loyola, Kant, Schopenhauer, Valery, Nietzsche, Derrida, Merleau-Ponty, Warburg, Didi-Huberman, Gombrich… –, non solo varie possibilità di fruizione, che il visitatore è libero di calibrare a misura del proprio desiderio di farsi trasportare dall’invisibile rete di collegamenti estetici, ma anche opportunità di partecipazione attiva, come avviene nelle sessioni di disegno dal vero. A ciò la mostra aggiunge una marcata tendenza alla spettacolarizzazione, che ha trovato soprattutto nelle performance in programma, ad esempio Manual Focus (2003) della coreografa e danzatrice Mette Ingvartsen, momenti di grande intensità.