Il secondo sabato di aprile è stato il primo, vero, agognatissimo giorno di primavera. Stavo tornando dalla neo inaugurata Nuvola Lavazza e per rientrare alla base ho scelto di attraversare uno dei miei luoghi preferiti al mondo. Il mercato di Porta Palazzo. È quasi indescrivibile la bellezza e il coacervo di profumi, sapori, tratti somatici provenienti da tutto il mondo uniti in un solo posto. Passi dalla menta marocchina alle olive di Cerignola alle acciughe liguri all’agnello musulmano ai contadini delle valli circostanti. È sublime. Perché sublime è l’umanità. Sublime nella sua bellezza, irrorata di luce e calore e felicità spugnosa. Sublime nel suo stare insieme, schiacciata, ammassata intorno a un banco di carciofi al finire della loro stagione, quindi meno cari. Più succulenti. Nel brulicare di mille situazioni in via di disfacimento, tossici e signore che fanno la spesa. Tutti insieme. Con un grande e potente denominatore comune: sono vivi. Siamo vivi. E ci guardiamo. Osserviamo. Piacciamo. Disgustiamo. Aspettavo il 4 e me ne stavo lì sulla banchina bruciata da un sole improvvisamente cocente quando ho incontrato i suoi occhi. Incontrare lo sguardo di un bambino è una cosa inspiegabile. È farsi sfiorare dal mondo perfetto. Lontani e librati nel cielo immenso della loro purezza, dall’essere, profondamente, senza altri orpelli. Loro sono al di sopra di noi. Ci benedicono con la loro presenza e attirare la loro attenzione ci fa sentire speciali. Lo stavo osservando da qualche secondo quando mi sono accorta della sua carrozzina. Disabile. Handicappato, si diceva una volta. Dietro di lui una nonna o una zia, stanca, con gli occhi scavati. Incattiviti mi è sembrato. Provata dalla fatica e dall’ingiustizia di dover gestire questa difficoltà da sola. Zero aiuti, zero supporto. Solo sacrifico e maledizione. Così ci si sente, in una Italia che lascia soli in mezzo al disastro. Mi sono distratta. Ho distolto lo sguardo. Ci si vergogna a guardare i diversi. Poi ci siamo rincrociati. I suoi occhi dentro i miei. Era come se mi richiamasse dandomi il permesso di osservarlo come si fa con un bambino. Come tra tutti gli sconosciuti che per un battito di ciglia prima che arrivi il tram si riconoscono senza rivedersi mai più. E io mi sono fermata. Ho fatto tacere il mio grillo parlante perbenista e gli ho dedicato la dolcezza che si meritava. E che si meritava anche il nostro incontro. Che si meritava questo sole che ci stava scaldando l’anima, forse anche quella della zia. Che due minuti dopo lo ha trascinato sul pullman, senza passerella, per riportarlo a casa.