Il governo inizia a fare il punto sul serio sulla possibilità di varare almeno in parte le riforme messe nero su bianco nel contratto con le cannoniere dello spread non solo puntate ma già in fase di tiro. Mentre il premier, il vice Di Maio, il sottosegretario leghista alla presidenza Giorgetti, i ministri dell’Economia Tria, degli Esteri Moavero e degli Affari europei Savona si riunivano in tarda mattinata a palazzo Chigi, lo spread s’impennava sino a toccare quota 270 punti. Più tardi, il differenziale è sceso sino a 251 punti, ma la tensione resta e il segnale su come rischia di andare il percorso della legge di bilancio non potrebbe essere più chiaro né più allarmante.

IL VERTICE ERA SOLO UN PRIMO passo: inutile quindi aspettarsi indicazioni precise e puntuali. Sul punto chiave, le riforme invocate da M5S e Lega, siamo ancora solo ai titoli. I quali però confermano che almeno i primi passi verranno mossi già a partire da quest’anno, come chiesto da Lega e 5S. Sullo sfondo, il progetto di Savona che prevede massicci investimenti per rilanciare l’economia: 50 miliardi di euro. A riunione terminata, Tria si è limitato a confermare «la compatibilità tra gli obiettivi di bilancio già illustrati in Parlamento e l’avvio delle riforme contenute nel contratto di governo in tema di Flat Tax e reddito di cittadinanza». Decisamente vago Conte, che assicura di aver operato con i colleghi «una ricognizione dei vari progetti di riforma che consentiranno all’Italia di avviare un più robusto e stabile processo di crescita economica».

TONI FELPATI A PARTE, non c’è molta differenza con quanto aveva anticipato in mattinata Salvini, che tuttavia non era presente al vertice: «Non ci sarà tutto subito. Però i primi passi di Flat Tax, smontaggio della Fornero, stralcio delle cartelle Equitalia ci saranno». Di Maio, rispondendo al question time del Senato giovedì pomeriggio, aveva a sua volta garantito che il progetto di legge sul reddito di cittadinanza è in arrivo e le voci di palazzo lo prevedono pronto entro gennaio.

LA FORMULA ADOPERATA da entrambe le parti in causa è volutamente vaga. Cosa si intenda per «primi passi» resta indefinito e di conseguenza lo sono anche i costi. La situazione di partenza è pesante: una manovra da 22 miliardi secondo la valutazione più ottimista. La sterilizzazione dell’aumento Iva ne costerà 14,2, le spese per interessi altri 4, le conseguenze delle stime al ribasso sulla crescita aggiungeranno 2,5 miliardi. Poi ci sono le spese correnti, nella migliore delle ipotesi 3,5 miliardi, ma proprio tenendo stretti stretti i cordoni della borsa e certo senza aggiungere al paniere misure ambiziose come quelle che ha in mente Di Maio anche al di fuori delle riforme principali, ad esempio il costo degli asili nido. A partire da questa base il governo intende, e non potrebbe del resto fare altro, avviare una trattativa a tutto campo con Bruxelles. Per ottenere nuovi margini di flessibilità ma anche per individuare una via che permetta di finanziare almeno in parte le riforme promesse, in particolare il reddito di cittadinanza, con fondi europei. Dagli spalti forzisti Brunetta, che ha tutto l’interesse a soffiare sul fuoco, afferma che il governo ha deciso di «sfidare la commissione europea». Non è precisamente così. Il governo sa che la commissione si trova in una fase di debolezza essendo in scadenza, con le elezioni europee a un passo e la paura del dilagare delle forze anti-Ue. Dunque ha ottimi motivi per sperare in una concessione di cospicui margini di flessibilità aggiuntiva.

IL PROBLEMA SI CREERÀ se il governo deciderà davvero di rimettere mano alla riforma Fornero, passaggio sul quale è già scattato un minaccioso veto della Bce, o se quei «primi passi» si riveleranno troppo onerosi. Ma il vero rischio, stavolta, potrebbe non essere rappresentato dall’eventuale conflitto con Bruxelles. La vera minaccia è la reazione dei mercati, della quale ieri si è avuto solo un primo assaggio. L’impennata del rendimento sui titoli di Stato a fronte dell’avvio delle riforme sarebbe un terremoto e la situazione potrebbe peggiorare di molto se le agenzie di rating, in autunno, decidessero, come è possibile, di declassare il debito italiano.