I cacciabombardieri turchi, che da un anno infestano i cieli del nord dell’Iraq alla caccia di postazioni del Pkk, erano rimasti a terra nei giorni successivi al tentato colpo di Stato. Ieri hanno ripreso il lavoro: almeno 20 combattenti kurdi sono stati uccisi in raid dell’aviazione di Ankara contro le montagne irachene di Qandil.

La guerra alle aspirazioni democratiche e autonomiste kurde non conosce tregua: non a caso nelle ore concitate del golpe la popolazione kurda era la più disorientata, indecisa se sperare in una caduta del presidente Erdogan, suo vampiro, o nel fallimento del golpe militare, simile a quelli che nei decenni passati si sono tradotti in una radicalizzazione della lotta ai kurdi.

Nell’ultimo anno è stato il Kurdistan turco a vivere a stretto contatto con l’esercito e le sue unità speciali che hanno devastato le città, ucciso centinaia di civili e costretto alla fuga 355mila persone (dati Human Rights Watch). Quella campagna non è terminata come non lo è quella aerea contro le postazioni del Partito Kurdo dei Lavoratori che nel nord dell’Iraq aveva fatto ritirare i suoi uomini dopo l’avvio del processo di pace con Ankara voluto dal leader Ocalan, tre anni fa.

I raid di ieri servono a questo: a ricordare che lo schiacciasassi turco è sempre in moto e non mollerà la presa sul Kurdistan, nonostante le epurazioni in corso nelle forze armate (tra loro anche il capo dell’aviazione, il generale Ozturk). Un messaggio ai kurdi, sì, ma anche allo stesso esercito, a confortarlo e allo stesso tempo a tenerlo a bada: le mire nazionaliste interne sono più vigili che mai e Erdogan ha il pieno controllo dei militari.

Al di là dell’ininterrotta violazione della sovranità di Baghdad – talmente poco interessante per la comunità internazionale che anche il governo iracheno ormai non protesta più – a rimbombare insieme ai fischi delle bombe turche è la sinistra ironia della tempistica. Ieri non era un giorno qualsiasi: ieri era il 20 luglio, un anno esatto dalla strage compiuta dallo Stato Islamico a Suruç, estremo sud turco, ad un passo dal confine con la Siria, a due da Kobane.

Quel giorno in città si teneva un raduno della Federazione delle Associazioni dei giovani socialisti, 330 ragazzi riuniti nel centro culturale Ammara. Si stavano preparando a partire per Kobane, liberata da pochi mesi dalle Ypg di Rojava, per portare giocattoli e medicinali.

Delle tante immagini di quel giorno sono due che ancora riemergono per la loro forza: la foto di gruppo scattata da quei ragazzi poche ore prima della strage e i loro corpi a brandelli pietosamente coperti con bandiere rosse (gli inquirenti impiegarono giorni per rimettere insieme i pezzi dei cadaveri). Ne morirono 33, dopo che un kamikaze si fece esplodere in mezzo a loro.

Ma il massacro non si è fermato a Suruç: con la scusa plastica e immunizzante della lotta al terrorismo islamista, il governo turco lanciò pochi giorni dopo la sua personale operazione anti-Isis. Che non ha colpito – quasi mai – il “califfato”, ma ha avuto come primario target il Pkk nel nord dell’Iraq, le Ypg di Rojava nel nord della Siria e il Bakur, sud est turco.

Un’equazione cristallina: a meno di due mesi dalle elezioni del 7 giugno 2015, quando il partito pro-kurdo e di sinistra Hdp ottenne un inatteso e prorompente 13%, con l’Akp che boccheggiava, a Suruç si è aperta la stagioni delle stragi targate Isis che ha seminato morte a Istanbul e Ankara più e più volte.

Con la paura e la destabilizzazione il sagace Erdogan ha così traghettato il popolo turco verso le desiderate elezioni anticipate di novembre dove l’ancora di salvezza, per molti, è stata sommariamente individuata nell’uomo forte. Lo stesso che negli anni precedenti ha abbondantemente seminato il fertile terreno dei gruppi islamisti nella vicina Siria.

In un simile contesto l’eventuale riapertura del processo di pace con il Pkk è un’opzione nemmeno presa in considerazione da un presidente che necessita di indebolire il paese per controllarlo meglio. I raid di ieri, dopo un golpe di una parte di quell’esercito che ha sempre schiacciato il popolo kurdo, non sono altro che la naturale continuazione di una simile politica che oggi si accompagna a purghe di Stato ed epurazioni di massa.