Una delle prerogative esclusive e difficilmente negoziabili dell’informazione classica è il suo carattere nazionale, se non locale. Ed è giusto che sia così, essendo stampa e broadcaster espressioni di comunità culturali e linguistiche attente alla loro identità. Tuttavia, il flusso globale e il pur forzoso contesto europeo costringono a fare i conti con un menabò mediatico internazionalizzato, reso ancor più evidente dal rullo continuo delle all news e dalla logica sovranazionale della rete. Con il governo presieduto da Matteo Renzi, però, la contraddizione tra media italiani e organi internazionali comincia a farsi stridente. Con l’eccezione de il manifesto e de il Fatto Quotidiano, l’esecutivo gode di un favore enorme (a parte alcuni autorevoli editoriali o commenti) in casa, mentre il Financial Times o l’Economist sono assai aspri, per citare due casi rilevanti. Intendiamoci.

Ciò che emerge è il dato critico inerente alla crisi economica, descritta in maniera secca e incontrovertibile, a cominciare dal calo del Pil nel secondo trimestre dell’anno in corso. Notizia che, ovviamente, non manca nei giornali italiani, ma è spesso schiacciata dalla tradizione del “panino”: tra l’elegia della riforma del Senato e l’elenco lungo dei propositi annunciati. Il testo si ritrova, dunque, anche nei nostri media, ma il contesto del flusso è tutt’altro. In un caso è la notizia, nell’altro è una sequenza di un blob complessivamente speranzoso e bonario. In verità, in un sistema debole e largamente dipendente da poteri ultronei, diviene più forte e patologica una tendenza generale, ben descritta da Mario Morcellini (2013): la difficoltà dei media nel saper trasmettere contenuti adeguati ai tempi del declino e della decrescita. Anzi. Per la debolezza o l’assenza di una bilancia dei poteri, la funzione dei media è direttamente politica, fungendo da guida interpretativa e persino da direzione politica e culturale. A parte il tanto chiacchierato “patto del Nazareno”, che verosimilmente potrebbe avere un sottotesto sul mantenimento dello status quo nell’ambito televisivo, è nei passaggi chiave che emerge la scarsa presenza di editori “puri”, autenticamente autonomi. Insomma, la crisi italiana – qualsiasi sia il maquillage imbellettante- è assai più grave di quanto una narrazione accomodante voglia far credere. Mario Draghi, italiano ma rappresentante del massimo tabernacolo finanziario europeo, parla poco con i giornali nostrani e offre la sua voce alla Bbc. Per sottolineare proprio la pesantezza del quadro. La latenza è uno dei tratti del linguaggio mediatico e qui ne abbiamo un esempio significativo. Non se ne voglia Renzi, uso a librarsi veloce lungo il tempo della comunicazione: è quest’ultima a dare le carte e a fungere da cabina di regia. Sempre con eccezioni, naturalmente. Ecco perché siamo così in basso in tutte classifiche sulla libertà di informazione, e non solo per le censure o le brutte leggi. È il modello angusto e subalterno ad essere in causa ed è bene non rimuovere il problema. Il sovraccarico di informazioni, figlio di una non governata rivoluzione tecnica, favorisce una permanente sceneggiata sulla crisi, piuttosto che un’indagine spietata sulle origini profonde del collasso. Senza un serio pluralismo delle opinioni. Tant’è, ad esempio, che il referendum contro austerità e fiscal compact è pressoché invisibile, in quanto contrario al pensiero unico, centellinato secondo convenienza.

La verità ti fa male…. cantava Caterina Caselli. Per alleggerire un po’ la tragedia.