Non c’è lavoro, neanche per gli italiani, perché occuparsi dei migranti? Una domanda retorica frequente anche in ambienti insospettabili, che indica l’incapacità di comprendere la stretta connessione esistente tra alcuni aspetti della crisi in atto e la gestione xenofoba e razzista dei processi migratori che l’Europa ha attuato nell’ultimo decennio, per tacere del periodo precedente. La globalizzazione è la forma contemporanea della lotta di classe del capitale contro il lavoro, hanno ormai detto in molti. Quello che, invece, mi pare dicano in pochi, è che la diffidenza, il disinteresse e l’assenza di solidarietà della working class e, soprattutto, dei suoi partiti, dei suoi sindacati e di alcune sue organizzazioni, pur con qualche eccezione, nei confronti dei migranti, tradottasi nel rifiuto di condividere le lotte per il salario, la casa, le condizioni di lavoro, i diritti e quant’altro, ha favorito il dilagare delle pratiche – dalla precarizzazione della vita all’erosione del welfare, dal progressivo contenimento del costo del lavoro fino alla stessa finanziarizzazione – con le quali il capitale ha sferrato la sua offensiva già dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento.
La crisi, figlia della globalizzazione, usata per indebolire, se non addirittura distruggere, la forza accumulata dalla classe operaia dalla fine della Seconda guerra mondiale alla prima metà dei Settanta, ha senza dubbio ricevuto manforte dalla solitudine in cui sono stati lasciati i lavoratori migranti, ormai scomparsi dai discorsi e dalle pratiche della politica ufficiale, abbandonati a loro stessi o spinti al rimpatrio volontario, quando quello coatto non è possibile.

Di male in peggio

Due testi recenti, pur molto diversi tra loro, forniscono informazioni utili per comprendere questa relazione, analizzando due ambiti specifici: Claudio Marra, La casa degli immigrati. Famiglie reti, trasformazioni sociali, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 190, euro 25 e La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia, a cura di C. Colloca e A. Corrado, FrancoAngeli, Milano 2013, pp. 216, euro 29. In generale, la crisi economica, pur portando a una «flessione dell’occupazione degli stranieri» ne ha rafforzato «l’impiego soprattutto in attività non qualificate (manovale edile, addetto nelle imprese di pulizie, bracciante agricolo) e nei servizi domestici e di cura alla persona» (Marra) – in agricoltura poi il saldo è particolarmente positivo, più «23% rispetto al 2010» (Colloca-Corrado) – contribuendo così, nei settori succitati e non solo, a un ulteriore abbassamento del costo del lavoro, a un peggioramento delle condizioni lavorative e a una loro trasformazione secondo la linea del colore e del genere foriera di sempre nuove gerarchie e discriminazioni. Il paradosso, chiamiamolo così, è che se quei migranti tornassero ai loro paesi d’origine, i loro lavori diventerebbero disponibili per le disoccupate e i disoccupati italiani che li volessero non a salari più elevati e a condizioni di lavoro migliori ma, se va bene, alle stesse, perché quei settori non possono più sopravvivere con costi del lavoro più elevati. Le alternative sono la chiusura o la delocalizzazione.
La questione abitativa è un esempio chiaro di come la mancanza di solidarietà di classe porti risultati negativi per tutta la working class. Non solo il «pensiero di Stato», infatti, si manifesta, come diceva Sayad, nel modo in cui sono trattati i migranti, ma anche il «pensiero di società», come scritto di recente da Mezzadra e Ricciardi, mostra la propria natura allo stesso modo, confermando che il trattamento delle «migrazioni [È]lo ‘specchio’ delle società d’approdo» (Marra), tanto più se si propone come luogo dell’illibatezza politica quale prova di un’immaginaria onestà che ingrassa il mito del buon cittadino qualunque.
Non solo gli ostacoli legislativi rendono difficile ai migranti trovare alloggi confacenti alle loro esigenze e possibilità economiche, ma anche il razzismo di molti affittuari, visto che la possibilità di alzare il prezzo se si affitta ai migranti – «dal 10% al 30%» in più – fa il paio con la facilità di cacciarli se irregolari e, dato il nefasto connubio tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, anche se regolari: fino alla carta di soggiorno, infatti, precarietà e clandestinità sono sempre dietro l’angolo. Il «deficit strutturale» nelle politiche di edilizia pubblica che genera «scarsità di offerta, incapacità di produrre un consistente mercato dell’affitto (socialmente accessibile) e, infine, efficaci politiche rivolte all’area della povertà» non influisce negativamente solo sui migranti, ma anche su chi può pagare, come accade a molti italiani, solo canoni d’affitto molto bassi. La «carenza e in molti casi assenza» dei «servizi di supporto» (Marra), come gli asili o le mense scolastiche, non produce solo diverbi e scontri quotidiani tra italiani e migranti: spinge chi se lo può permettere a ricorrere ai servizi privati, dando forza alla deriva di privatizzazioni in atto col conseguente innalzamento dei prezzi.
In agricoltura le cose non vanno meglio, date le condizioni materiali e psicologiche di servaggio nelle quali molti migranti sono costretti a lavorare e vivere. La larghissima diffusione di «lavoro irregolare», ormai «elemento strutturale del settore», non consente solo l’erogazione di salari da fame, ma anche uno ‘scambio vantaggioso’, visto che la «disponibilità dei datori di lavoro» a non essere «troppo rigidi in tema di documenti è ampiamente ripagata dall’evasione contributiva che tale rapporto consente» (Colloca), e non solo nelle campagne del Sud. La posizione di svantaggio in cui si trovano i migranti, grazie alla dipendenza tra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, favorisce l’evasione fiscale, i cui disagi si ripercuotono soprattutto sui lavoratori dipendenti a reddito medio-basso. Ma consente anche a «falsi braccianti autoctoni», registrati all’Inps al posto dei migranti, di «beneficiare delle agevolazioni contributive: indennità di disoccupazione, di malattia e di maternità» che spetterebbero ai migranti che lavorano e che invece vanno a chi, pur «non lavorando, incassa contributi danneggiando la finanza pubblica», spesso con la copertura di «soggetti istituzionali locali, sindacalisti, addetti ai patronati, medici compiacenti», reti clientelari e parentali, nonché dell’onnipresente «’ndrangheta» (Colloca) e di parecchie «cooperative» (Corrado).
La ristrutturazione del lavoro agricolo in una direzione che rende le campagne e non solo città sempre più «globali» sfuma la distinzione netta tra insediamenti urbani e rurali, come nei casi di Castel Volturno (Caruso) e di Latina (Omizzolo). Ciò comporta non solo una «riorganizzazione intensiva», ma anche «un’agricoltura sempre più industrializzata e specializzata» mossa dalla «transnazionalizzazione del capitale agro-alimentare», secondo il modello «californiano», grazie al «ruolo strutturale assunto dalle migrazioni all’interno di una divisione etnica e razziale del lavoro» (Colloca-Corrado): non a caso, lo sviluppo e la trasformazione in senso etnico del «caporalato» accomuna molte delle realtà analizzate. Una produzione just-in-time che richiede una mobilità elevata non incompatibile con ritmi e modalità di lavoro ancora fordisti e basati sulla produzione di «plusvalore assoluto» (Avallone), i cui «scarti» non di rado costituiscono un serbatoio di riserva per la criminalità organizzata, più che per l’economia (Caruso): problema che non tocca certo solo i migranti. Se poi si cerca di controllare l’alta mobilità con la ghettizzazione, dove la questione abitativa riemerge con forza come nel caso pugliese (Fanizza e Perrotta) e in quello campano (Caruso), oppure con i «centri» di identificazione ed espulsione (Cie), ma anche di accoglienza per richiedenti asilo (Cara), allora emerge chiaramente che perfino la categoria di «rifugiato» serve almeno in parte a mascherare «manodopera esposta a condizione di ipersfruttamento finanche più gravose rispetto a quelle di altri migranti» (D’Agostino).

Oltre i confini

Ma le trasformazioni cui i migranti sottopongono i territori di approdo, dilatando e sovrapponendovi i loro spazi di auto-organizzazione, impediscono di confinarli al ruolo di «vittime», categoria con la quale, spesso, li si rende subalterni. I migranti, infatti, pur tra mille difficoltà, hanno iniziato a organizzarsi e, talvolta, anche a ribellarsi alle condizioni disumane in cui sono costretti a lavorare e vivere, come dimostrano i casi di Rosarno (Colloca), della Piana del Sele (Avallone) e di Castel Volturno (Caruso). Ma l’episodicità di tali avvenimenti sarà superata solo se gli italiani, soprattutto i più svantaggiati, si renderanno conto che le loro condizioni di lavoro e di vita dipendono strettamente da quelle di chi, spesso e non solo loro, si ostinano a chiamare, in modo dispregiativo e in barba alla globalizzazione reale, extra-comunitari, «nascondendo» il proprio razzismo e la propria paura dietro il dito della geografia.