Le tante identità di Suad Amiry sono la guida migliore dentro le trasformazioni forzate subite dal popolo palestinese e dalla sua terra: nipote di rifugiati, rifugiata, architetta, scrittrice (il suo ultimo libro pubblicato in Italia Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea è un viaggio nei tanti piccoli dolori individuali di una catastrofe collettiva, quella del 1948). Con lei abbiamo parlato degli ultimi avvenimenti.

Cosa ha portato all’esplosione di Gerusalemme, alla nascita di un movimento popolare a difesa di Sheikh Jarrah?

Lo sgombero di 28 famiglie palestinesi è una manifestazione delle politiche israeliane a Gerusalemme: trasformare la zona est araba in un quartiere ebraico. Sheikh Jarrah ha attirato l’attenzione perché è in una zona dove sono collocate le ambasciate europee e la rappresentanza della Ue, ma anche perché queste 28 famiglie sono rifugiate del 1948. Vivevano a Gerusalemme ovest, dove avevano le loro case, ma anche a Jaffa, la mia città. Portano con sé il bagaglio di un grande dolore: da rifugiate, rischiano un nuovo sgombero. Dagli anni di presidenza Trump, Gerusalemme vive una tremenda forma di apartheid di cui i 22mila ordini di demolizione di case palestinesi sono la misura. Ogni persona che è scesa in strada a sostegno di quelle famiglie è minacciata essa stessa di sgombero. Israele ha toccato un nervo scoperto. A ciò va aggiunta la mancata risposta di Israele all’inchiesta della Corte penale internazionale per crimini di guerra. La gente di Palestina ne è stata davvero disturbata perché ha generato un forte sentimento di impotenza di fronte agli abusi.

Infine, il ramadan. Io sono laica, ma la provocazione è palese come la camminata di Sharon ad al-Aqsa che accese la Seconda Intifada. In questo caso il raid è avvenuto nella notte più sacra del ramadan, leilat al qadr, mentre lì c’erano 17mila palestinesi che stavano pregando, rompendo il digiuno con le donne che portavano il cibo, i bambini che giocavano. Hanno compiuto un raid e provocato centinaia di feriti, dopo aver impedito a palestinesi fuori da Gerusalemme di arrivare sulla Spianata e dopo aver installato una base militare mobile nella città vecchia. Fanno di tutto per ottenere il controllo di Gerusalemme est e della città vecchia. Se nessuno li fermerà continueranno.

Suad Amiry

Da palestinese, architetta e scrittrice, come può descrivere le trasformazioni di Gerusalemme? Israele ha molti progetti urbanistici, nuove strade, funivie, treni, musei, che ne stanno cambiando l’identità.

Il grande progetto israeliano è giudaizzare Gerusalemme est. Nelle mappe israeliane sono stati creati i nuovi confini della cosiddetta Greater Jerusalem. Per questo è in corso il tentativo di prendere Sheikh Jarrah, Silwan, sotto attacco da tempo per la sua posizione accanto alla Spianata, e Wadi al Joz, che è considerata la zona «industriale» araba e dove Israele intende creare la Silicon Valley di Gerusalemme. Sarà costruita su terre arabe, al posto dei garage, le botteghe e le piccole attività palestinesi. Dal 1948 a oggi il percorso non è cambiato: gli israeliani vogliono cacciare la gente per prendere la terra. È semplice. Lo abbiamo visto a Jaffa e Haifa e oggi lo vediamo a Gerusalemme. È lo stesso identico progetto di colonialismo di insediamento. Lo si vede anche in altri progetti, come il nuovo tram che serve solo i quartieri ebraici di Gerusalemme e non passa per quelli palestinesi, o la futura funivia che di nuovo eviterà i quartieri palestinesi. I residenti palestinesi pagano le tasse come gli altri ma non ottengono servizi.

Nel 2018 in occasione della Grande Marcia del ritorno a Gaza, disse al manifesto che la resistenza popolare di donne, uomini, bambini è per Israele invincibile. In questi giorni abbiamo visto un movimento popolare di disobbedienza civile importante a Gerusalemme.

È questo il potere dell’intifada. Donne, famiglie, anziani, sono tutti in strada. La disobbedienza civile è di certo la più forte forma di resistenza. E Gerusalemme in questo è sempre una sorpresa. Il rinvio delle elezioni palestinesi, la scomparsa del supporto internazionale, la normalizzazione di Israele con alcuni paese arabi avevano creato disperazione. Ma ci hanno anche ricordato di essere gli unici a poter difendere noi stessi.

I palestinesi sono un popolo diviso geograficamente con giovani generazioni nate e cresciute senza conoscersi, incontrarsi. Si può ancora parlare di un solo popolo palestinese?

Noi e gli israeliani andiamo in direzioni opposte: gli ebrei venuti a vivere qui in Palestina arrivavano da comunità sparse per il mondo; noi siamo stati costretti a vivere all’estero, non è stata la nostra decisione. Mia sorella che vive negli Stati uniti o la mia famiglia che sta in Giordania non sono lì per loro scelta. L’essere stati cacciati dalla nostra patria è una ferita che non si rimargina ma allo stesso tempo ci tiene uniti in un modo fortissimo. Sono cresciuta in Giordania, sono nipote di rifugiati, so cosa significa stare in diaspora e sognare il ritorno. È una ferita ma allo stesso tempo un arricchimento della nostra cultura. L’essere umano che conosce diversi contesti è il più tollerante. Questa esposizione al mondo esterno dona una mente aperta e un’accettazione della bellezza delle culture altrui che supera le false paure dell’altro create da certi politici. Siamo tutti delle melanzane cucinate in modi diversi, ma tutti deliziosi. Per questo sono orgogliosa dei palestinesi: conoscono tutte le lingue, conoscono tutte le culture. Ed è bellissimo.