Da alcuni anni non tornavo a visitare sua maestà il cedro delle Langhe. O cedro de La Morra. O Grande cedro. Si tratta di un alberone che domina la cima di Colle Monfalletto, ai piedi dell’abitato del comune di La Morra, di fronte al castello di Grinzane Cavour, in quel paesaggio straordinario che è stato inserito nel patrimonio mondiale dell’Unesco.

DA QUANDO EBBI MODO DI VISITARE per la prima volta questo colle e il suo patriarca verde è terminata un’epoca e ne è emersa una del tutto diversa. Nella prima ancora la terra conservava la storia di tanta miseria, di tanta fatica, di tanto sudore versato per lottare contro la terra e l’asprezza delle stagioni più avverse, sia a causa dell’andamento delle questioni umane, sia a causa della difficoltà di far fruttare il «succo» prodotto dagli acini di un grappolo d’uva. Poche le proprietà recintate, poche le vigne d’autore, poche le grandi cantine in grado di fare commercio internazionale, piuttosto era terra di comunità. Imbevuto com’ero, da ragazzo, di letture classiche di queste terre – i Pavese, i Fenoglio, i Revelli – riuscivo ancora a distinguere i segni di quella vasta lotta e di quella miseria che le mani hanno dovuto scalzar via, per generazioni, tranne poche note eccezioni.

AL CONTRARIO OGGI, IN QUESTO AUTUNNO eccezionalmente caldo del 2019, rivedo un territorio arricchito, con proprietà che sono oramai gestite dai miei coetanei, laureati, viaggiatori del mondo, commercianti abili e industriosi. Residenze di campagna trasformate in residence, con robot tagliaerba automatici, cantine disegnate da archistar, opera d’arte diffuse e molti turisti del vino, in buona misura ovviamente facoltosi. È proprio un mondo trasformato. Lo è qui, in Piemonte, lo è nel Veneto, lo è in Trentino, lo è nel Chianti piuttosto che lungo la Bolgherese. Ora qui esiste il benessere ed è manifesto: sorgono strutture per l’accoglienza, si possono avvistare piscine e altre sorprese che sino a pochi anni fa erano semplicemente impensabili.

Il cedro di Colle Monfalletto appartiene alla specie Cedrus libani, è stato messo a dimora nel 1856, in occasione dello sposalizio fra Eulalia Della Chiesa di Cervignasco e Costanzo Falletti di Rodello, di cui sono eredi gli attuali proprietari, i Cordero di Montezemolo. Da allora sono trascorsi 163 anni, l’albero svetta in tutto il suo splendore ed è visibile a chilometri di distanza. Arrivando da Alba, l’albero spunta nel paesaggio come se un fascio di luce lo illuminasse con devozione, a mezza altezza, solitario, in cima ad una piramide di linee ordinate e pulite, la gradevole geometria dei vigneti. Un grande uccello verdastro dall’aria preistorica che sembra sul punto di spiccare il volo.

IN ITALIA CI SONO DIVERSI CEDRI monumentali, come gli esemplari di Varese, Ferrara, Reggio Emilia, Biella, e ancora il castello Il Catajo a Battaglia Terme, nel padovano, nelle ville del comasco, a Perosa Canavese, in Piemonte. Il cedro delle Langhe ha una propria caratteristica: invece di innalzarsi con rami che dalla base si sollevano, poderosi e obliqui, verso l’altro, come sarebbe caratteristico della specie, le ramificazioni pendono da più punti e altezze del tronco, sospendendosi nelle diverse direzioni, come un barometro naturale che attende di misurare la consistenza di ogni tipologia di vento, subendo anche il più piccolo capriccio delle isobare. L’ultima rimonda è stata compiuta una trentina di anni fa, mentre la ferita da fulmine che lo ha segnato, duramente, nel tronco, è in fase di rimarginazione.

LA CORTECCIA INFATTI SI E’ ISPESSITA e lentamente sta tentando di edificare delle «velature» che andranno, forse mai compiutamente, a ricoprire le decine di centimetri del danno. Il legno dove è passato il fulmine è levigato, liscio, quasi piallato. Non la corteccia brunastra, ma una superficie grigio chiaro.

Misurazioni: l’albero supera i venti metri, mentre il tronco offre 450 cm. di circonferenza, se misurato al di sopra delle prime branche che spuntano dalla base, intorno al metro e mezzo di altezza, oppure 412-413 cm, se si misura nel punto più stretto, a circa una spanna dal suolo, da colletto. Appare in ottima salute.

Purtroppo l’accesso alla cima della collina dove cresce ora è chiuso da un cancello, e attorno alla base dell’albero è stata tirata una seconda rete. Purtroppo è necessario moderare l’accesso del pubblico a questo albero vetusto e quindi, nonostante l’aspetto robusto, per l’appunto monumentale, fragile; di fatti, troppo spesso i visitatori si abbandonavano a manifestazioni di grande amichevolezza, arrampicandosi magari sui rami o fino alla cima.

QUESTI NOSTRI VEGLIARDI VEGETALI vanno protetti, per quanto possibile, anche se spiace tracciare dei confini, se non li si vuole perdere o compromettere, come troppo spesso è accaduto in questi anni. Certo, non sarà più possibile fare come facevano i bambini di queste zone quindici o venti o trenta anni fa, quando, la domenica pomeriggio o nelle lunghe e afose estati, ci si ritrovava sotto la chioma del grande albero, a parlare di niente, o di calcio, di amicizia, di storie e disavventure, oppure a pomiciare con la nuova fidanzata, ad avanzare proposte di matrimonio. Quei tempi forse sono davvero tramontati e questo è anche un grande peccato.
Oggi mi ritrovo qui, al riparo sotto le sue fronde. La grandinata di pochi giorni prima ha risparmiato i vigneti di questo settore, ma è ben visibile, in lontananza, il segno marcato del danno prodotto in altre proprietà, come avviene nelle colline di fronte, in altre frazioni del comune e al di sotto di Grinzane. Là si notano intere fasce scure, marroni, segno della devastazione alle piante e quindi, ovviamente, ai frutti. Ma, nonostante lo spavento, la maggior parte dei grappoli è salva e la vendemmia si preannuncia di grande quantità e qualità, sebbene ritardata di qualche giorno.

RIESCO AD AMMIRARE LE COLLINE che circondano il colle come una corona di gemme preziose, rimbalzando con lo sguardo da un campanile ad un castello, segni che contraddistinguono gli abitati di La Morra e del piccolo e incantevole Verduno, quindi di Castiglione, di Grinzane, di Barolo. Tutti luoghi geometrici di una storia di contadini che hanno lottato per ammorbidire, fertilizzare e ammaestrare una terra sabbiosa. Non a caso qui sotto, in questa immensa spiaggia dissotterrata che un tempo era il fondo d’un mare, sono stati ritrovati gli scheletri di grandi cetacei estinti, ora in esposizione nei museo di storia naturale e paleontologici di Asti e Torino. La natura ci insegna che tutto si trasforma, costantemente.