La doppia mancanza del capitolo pensioni nel testo della legge di bilancio è uno dei nodi più grandi della delicata partita Lega-M5s. Se fino a giovedì si parlava di «disegni di legge collegati», ieri Di Maio ha parlato – anche per il reddito di cittadinanza – di «un decreto, subito dopo la legge di bilancio, intorno a Natale». La motivazione del cambio di strumento e tempistiche è tutt’altro che chiara e appare come l’ennesima scusa per motivare un ripensamento ed un ritardo: nella legge di bilancio «le norme ordinamentali non possono starci». Per depistare chi volesse considerare questa mossa un rallentamento e per rassicurare i pensionandi in attesa, Di Maio specifica: «Non lo faremo con un disegno di legge ma con un decreto legge perché l’Italia non può aspettare».

MA SE ENTRAMBE LE FORZE di maggioranza rivendicano il successo di una Quota 100 – per cui in legge di bilancio sono previsti 6,9 miliardi – con fin troppi paletti e punti interrogativi, sulle pensioni d’oro lo scontro è tornato totale.
Mentre i gruppi di pensionandi che sui social network hanno fatto campagna elettorale per Lega e M5s iniziano a virare e registrano sempre più critiche verso il «governo del cambiamento» («Ci avete preso in giro, in pensione non andrà nessuno») avendo realizzato che con i 38 anni di contributi previsti non ci rientreranno, il taglio delle pensioni d’oro è tornato completamente in discussione.

SU QUESTO CAPITOLO Di Maio è più sincero quando dice: «Sulle pensioni d’oro stiamo facendo ancora i conti perché non siamo ancora soddisfatti dei soldi che recuperiamo, voglio recuperare ancora di più e quindi stiamo lavorando al meglio alla norma per farla entrare nella legge di bilancio».

L’obiettivo fissato da Di Maio era di «1 miliardo in tre anni», al momento quasi impossibile da raggiungere con il taglio dei soli assegni sopra i 4.500 euro. Per evitare il rischio di incostituzionalità delle norme che prevedevano un ricalcolo tramite fissazione di un’età di pensionamento retrodatata, si è virato non su un taglio vero e proprio degli assegni ma su un «contributo di solidarietà» – cavallo di battaglia del consulente leghista Alberto Brambilla – con un limite temporale prefissato, probabilmente di 5 anni.

UN PRELIEVO CHE AVREBBE diverse aliquote, ferma restando la soglia minima di 90mila euro lordi, cioè 4.500 euro netti al mese. Gli assegni già calcolati con il contributivo potrebbero essere esentati. Resta da vedere se arriverà un emendamento dei relatori o della commissione Lavoro della Camera che ha lavorato finora sulla proposta di legge dei capigruppo di Lega e M5s Molinari e D’Uva.

ANCHE L’ALTRO VICEPREMIER Salvini comincia a fare retromarce evidenti su Quota 100. Inserendo «paletti» che non faranno contenti i dipendenti pubblici. «Se mi dicono che di botto se ne vanno in pensione centomila persone in settori chiave dell’amministrazione pubblica come le scuole e gli ospedali è ovvio che non possiamo consentirlo. Dobbiamo provvedere gradualmente e con giudizio per evitare esodi di massa», ha detto il leader leghista nel già anticipatissimo libro di Bruno Vespa. «Perciò – ha annunciato – nell’arco del 2019 ci saranno tre o quattro finestre per procedere a scaglioni». Le «finestre» però servono soprattutto a ridurre il costo di Quota 100 lasciando i pensionandi al lavoro per più mesi. Ma questo Salvini non lo dice. Torna invece con la propaganda chiarendo che «il nostro obiettivo resta comunque quello di quota 41»: Quota 41 non ci sarà, rimarrà un miraggio per i lavoratori sopra i 62 anni, e anche per i lavoratori precoci la norma già esistente non è ancora stata rifinanziata. Solo alla fine dell’intervista a Vespa Salvini svela la ragione della marcia indietro: «Procediamo con cautela per evitare che l’Europa ci crocifigga». Ma in campagna elettorale sosteneva il contrario. E i pensionandi iniziano a ricordarselo.