Matteo Meschiari, nella vita, è antropologo e geografo. Un tema percorre quasi ossessivamente la sua opera saggistica: quello del paesaggio. Sua è la Landscape Mind Theory, un affilato e coraggioso tentativo di raffigurare la mente di Homo Sapiens come geneticamente e culturalmente paesaggistica. Al paesaggio ha dedicato, tra l’altro, i saggi editi da Sellerio Terra Sapiens / Antropologie del paesaggio, descrizione in cinque passaggi di un «presente remoto» dell’uomo che soggiace carsicamente in ogni cultura, e Sistemi Selvaggi / Antropologia del paesaggio scritto, un complessa rete di fuochi descrittivi che si avvalgono di fonti e apporti filosofici, geologici, semiotici, antropologici, geografici, architettonici, e via citando. Anche qui, il cuore sotteso della ricerca è che il paesaggio sia una modalità arcaica di pensiero dell’uomo, rifratta in (quasi) ognuna delle sue attività. Questi tentativi di cartografare il citato «presente remoto» dell’uomo hanno spesso coinvolto un terreno d’osservazione principe, la letteratura. Che di paesaggio è intrisa, anche quando sembra che non ci sia, in abstentia. Ma Matteo Meschiari è anche scrittore, e ora, tenendo ben fermo il timone della sua ricerca antropo-geografica escono tre racconti riuniti in volume per Fusta Editore, nella collana Bassa Stagione curata da Marino Magliani col titolo complessivo Tre Montagne. Diciamo subito che chi cerca consolazioni «paesaggistiche», appunto, nelle pagine meglio o peggio scritte di uno scrittore è immediatamente portato fuori strada da Meschiari. Non c’è nessuna velleità consolatoria né di narcisistico stordimento «panico« nella natura di Meschiari, non ci sono appaganti linee di continuità rivendicate tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore. Ed è qui il grumo di senso profondo di questi racconti forti e profondamente umanistici, proprio nel momento in cui la narrazione abdica ostinatamente alla ricerca di senso e corrispondenze tra uomo e paesaggio. Nel primo racconto, Svernamento, si tratteggia la figura di uno stanco geologo anarchico che, affaticato dagli anni e dall’alcol tenta e cerca un’ultima escursione in montagna, uno che ha annotato pensieri come questo: «Penso a quei tali che si sforzano di salvare uccelli incatramati sapendo che uno solo su dieci può sopravvivere. Che senso ha? Uno di loro ha risposto che ha senso per la vita in sé. Ma è solo metafisica. Voleva parlare della propria sopravvivenza di individuo contaminato per nove decimi dalle proprie miserie. Chi ne è consapevole, chi arriva ad essere consapevole del grumo di errore che lo abita, prima o poi se ne va in cerca di luoghi adatti per riconoscere se stesso, e per liberarsi delle proprie pastoie». Il «luogo adatto» del vecchio anarchico sarà un crepaccio dove morire. O è solo un altro dei pensieri, dei «grumi di errore» impietosamente rimandati a se stesso nel diario, il tutto? Nel secondo racconto, Primo Appennino, l’epopea di Gilgamesh, dunque alle soglie della narrazione umana è riarticolata in una cruda, stordente vicenda di lotta partigiana sui monti del modenese, scandita su modi e tempi teatrali, con tanto di «coro» a commento delle vicende. Il terzo racconto, Pace nella Valle, è la storia di una caccia (o di un tentativo di caccia) esperito assieme da padre e figlio: chi narra, Meschiari stesso, ovviamente, slitta continuamente dal singolare al plurale, dunque riconducendo il primo racconto su un uomo solo e il secondo sulle piste dei due eroi culturali gilgameschiani a un «noi» collettivo ugualmente immerso in una natura, come ben precisa Gian Luca Picconi in postfazione, muta e pura, perfettamente indifferente ai nostri sforzi, perché non certo bisognosa di essere capita. Un luogo dello scacco, quello del «paesaggio», che è anche luogo del riscatto: in quel residuo luogo di senso, comune a tutta l’umanità, che è, per dirla con Jonathan Gottschall, «l’istinto di narrare».