L’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme non è passata inosservata nella galassia jihadista. Dopo un giorno, i Talebani hanno dichiarato che «l’Emirato islamico d’Afghanistan condanna fortemente questo passo illegale e oppressivo dell’arrogante America». Già il 7 dicembre 2017, all’annuncio di Trump del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, i turbanti neri avevano criticato la «bigotteria anti-islamica» americana e la «colonizzazione delle terre musulmane» da parte del «regime sionista».

DUE GIORNI FA hanno parlato di «terrorismo di stato» e chiesto una risposta concreta da tutto il «mondo libero», senza invocare la lotta armata: per loro il jihad è domestico, nazionale.
La reazione, più rituale che sincera. Puntuale è arrivata anche la stilettata di Ayman al-Zawahiri, numero uno di al-Qaeda. Per lui la scelta di Trump rivela «il vero volto della crociata moderna» ed è parte della più ampia cospirazione di «sionisti e crociati» che usano il «sistema internazionale tirannico» per giustificare i propri crimini. Non solo Gerusalemme, dunque, ma «anche Tel Aviv è terra musulmana», recita il titolo del suo ultimo discorso, il nono della serie Brevi messaggi all’Ummah vittoriosa. Il vecchio al-Zawahiri torna su un vecchio cavallo di battaglia: la necessità che tutti i gruppi jihadisti si uniscano nella battaglia comune per liberare la «Palestina, tutte le terre musulmane» e combattere l’America, Israele e i regimi arabi corrotti (in particolare l’Arabia saudita) sotto l’insegna dell’unicità di Dio.

NIENTE DI NUOVO: già nel 1996 Osama bin Laden aveva sostenuto che la Palestina va liberata con la violenza, facendo poi della causa palestinese un tema ricorrente. Retorico, strumentale, utile a mobilitare le masse, ma mai tradotto in pratica. Atteggiamenti e toni simili sono rintracciabili nelle recenti dichiarazioni, circolate sui canali Telegram e sui siti affiliati, dei maggiori gruppi jihadisti sunniti.

I ricercatori Pieter Van Ostaeyen e Tore Hamming, che li hanno raccolti e analizzati, notano una risposta coesa. Una strategia duplice: condannare la scelta di Trump ma allo stesso tempo capitalizzarla per reclutare nuovi militanti. Per al-Qaeda nella penisola araba gli americani siano «schiavi di Israele»; per al-Qaeda nel Maghreb islamico i jihadisti si riuniranno ad al-Quds; dalla Somalia, al-Shabaab avverte che i campi di addestramento sono «pieni di combattenti pronti» ad aiutare i palestinesi; dalle montagne dell’Hindu Kush, il Tehreek-e-Taliban Pakistan, i Talebani pachistani, promettono fiamme e fuoco; in Libano, le brigate Abdullah Azzam rilanciano, mentre dal Kashmir Ansar Ghazwat-ul-Hind promette vendetta.

IN SIRIA, Hay’at Tahrir as-Sham, già branca locale di al-Qaeda (Jabhat al-Nusra), fa sapere che la scelta di Trump archivia ogni illusione di pace e che la liberazione di Gerusalemme passa per la Siria.

Gli ideologi radicali alzano il tiro: per il saudita Abdullah al-Muhaysini, «finché ci saranno musulmani con gli occhi per vedere, al-Quds non potrà mai essere la capitale di Israele». Mentre per Abu Muhammad al-Maqdisi, il clerico che si vanta di aver «insegnato il concetto di tawhid (unicità di Dio, ndr)» allo Stato islamico, la decisione di Trump dimostra innanzitutto la debolezza dei jihadisti, incapaci di impedire un passo così clamoroso.

SULLA STESSA LINEA lo Stato islamico (che pure ha disconosciuto al-Maqdisi): sul numero 109 del magazine an-Naba le dichiarazioni su Gerusalemme cuore della battaglia jihadista vengono ridicolizzate come ipocrite: «vi ricordate di Gerusalemme ora, dopo 60 anni?». Per poi allargare il tiro: il jihad non va combattuto solo per liberare Gerusalemme e la Palestina, ma per eliminare ogni forma di idolatria. Ovunque nel mondo.