Semaforo rosso. L’accordo è lì, chiaramente a un passo, però tre ore di vertice mattutino tra Di Maio e Salvini non bastano a trovare l’intesa sul punto più spinoso: il nome del futuro premier. In serata le quotazioni di Luigi Di Maio erano in netta discesa.

Salvini dava già per chiusa la partita: «Non saremo né io né lui».

Ma che sia chiusa davvero è tutto da certificare. I due si erano lasciati poco dopo pranzo, il leghista diretto a Monza, il pentastellato ad Aosta, con l’impegno di tenersi in contatto telefonico e rivedersi presto. Probabilmente oggi stesso, a Milano, anche se Salvini nega di avere il meeting in agenda.

FORSE C’È ANCHE QUALCHE ultimo punto di programma ancora in forse. Ma quelle, si sa, sono cose che si risolvono con relativa facilità: basti pensare al vorticoso ruotar di porta girevole a cui è stato sottoposto il Tav. Entrato e uscito dal contratto a più riprese, ieri mattina era cancellato. Nel pomeriggio, alla faccia della Val Susa, è ricomparso alla grande.



Contratto Governo Italia Lega M5S Italy Government Deal Five Stars Northern League (Text)

Palazzo Chigi è un’altra cosa. Perché ora Di Maio, che non ha mai smesso di puntare al bersaglio più grosso, deve per forza uscire allo scoperto. Il tempo stringe. Nei prossimi giorni i gazebo verdi e la consultazione on line gialla, e per lunedì è attesa, anche perché più volte annunciata, la salita al Colle, col programma fresco d’imprimatur e il nome del premier in tasca.

Ma l’ostacolo più serio deve ancora essere superato, tanto che lo stesso Di Maio frena: «Non ci sono scadenze. Sul premier abbiamo fatto passi avanti ma stiamo ancora ragionando».

Il passo avanti consisterebbe nella riduzione della rosa gialla a due soli petali, anche se fino all’ultimo non si può escludere che ne rispuntino altri tra quelli che al momento appaiono depennati, da Bonafede a Crimi a Fraccaro a Toninelli.

I due sopravvissuti sono lo stesso leader, che nel colloquio con Salvini ha messo finalmente in campo la propria candidatura solo per sentirsi rispondere con un «Allora il premier lo faccio io», e il giornalista Emilio Carelli, ex direttore Sky-Tg24, la cui candidatura è stata avanzata dal Carroccio. Il diretto interessato, a botta calda, aveva negato la propria disponibilità, salvo poi dirsi pronto ieri mattina.

SONO DUE NOMI INTORNO ai quali ruotano risultati opposti in termini politici. L’ascesa alla guida del governo del leader dei 5S sancirebbe il primato del Movimento nell’alleanza, confermando così i rapporti di forza consegnati dall’elettorato ai due partiti, con i 5S di gran lunga in testa. Inoltre la rottura tra Salvini e Berlusconi sarebbe a quel punto irrecuperabile.

La presidente dei senatori azzurri Bernini ha già avvertito che se il Contratto resterà profondamente giustizialista (ma avrebbe anche potuto dire «forcaiolo» senza esagerare) com’è al momento, Fi voterà contro il governo. Ma ove il premier fosse Di Maio il problema non si porrebbe neppure e il no alla fiducia del partito azzurro certificherebbe la fine del centrodestra, indebolendo così di molto le posizioni del leader del Carroccio.

PER MOTIVI UGUALI e opposti, Salvini non può accettare l’assegnazione dell’incarico al diarca pentastellato. Da un lato vuole evitare la frattura con il resto del centrodestra, dall’altro intende, per quanto possibile, non consegnare all’alleato, destinato però a trasformarsi in rivale diretto in ogni prova elettorale a partire dalle amministrative di giugno, lo scettro.

Se proprio dovesse rassegnarsi a cedere, Salvini insisterebbe per avere in cambio la sola poltrona in grado di riequilibrare i rapporti di forza tra Lega e 5S, quella dell’Economia per Giorgetti.

Il numero due del Carroccio, che al momento è indicato come sottosegretario alla presidenza del consiglio, non è quindi del tutto fuori gioco per la successione a Padoan, tanto più che tra tutti i leghisti è quello giudicato più affidabile da Mattarella.

Se Di Maio si rassegnerà a mollare la guida del governo accontentandosi della Farnesina, quasi certamente il ministero dell’Economia sarà affidato a un tecnico gradito al Colle. Se al contrario il capo politico dei 5S conquisterà palazzo Chigi, sarà il ministero degli Esteri a finire in mano a un tecnico, il diplomatico Giampiero Massolo.

NELLA SQUADRA, comunque, di tecnici ce ne dovrebbero essere anche altri, per rassicurare un’Europa che non ha deposto i fucili puntati sull’Italia.

«Bisogna rispettare gli elettori, ma vedo forze eterogenee e paradossali che si potrebbero alleare su un progetto di cui non si conoscono i dettagli», attacca ad esempio Macron.