Sul coperchio di una tabacchiera d’argento osservo un paesaggio finemente cesellato. Due edifici rustici costruiti sulla proda di un lago. Il primo quasi una capanna: il tetto spiovente, un abbaino. Una porticina ed una finestrella con l’impannata aperta. Sulla soglia l’erba che di poco si protrae a lambire lo specchio d’acqua antistante. Accanto quello che a tutta prima si mostra per un fienile. A due piani: il superiore predisposto al ricovero del foraggio; l’inferiore, per l’ampia porta d’ingresso, crederesti adibito a stalla. Il fienile ha la facciata protetta da una copertura, una tettoia sorretta da due antenne di legno fissate quasi al bordo della riva. Potrebbe, questo avancorpo, fungere da approdo per una imbarcazione leggera, essere uno scalo di alaggio. Consideri che in barca, attraverso il lago, alla stagione della mietitura, il trasporto dei fieni sia più agevole che sui carri. Alle spalle dei due fabbricati intravedi le cime degli alberi, abeti, forse, che corrono anche nello scorcio che si apre sul lungolago dove ancora scorgi, lontana, una casupola e laggiù più oltre ancora, sull’orizzonte, certe montagne. Le acque, senza una increspatura che ne muova la superficie, sono rese grazie alla perfetta incisione di linee sottili e parallele accostate. E così il cielo. Una veduta agreste che evoca serenità lontano dalle convulsioni della città. E invita ai sani piaceri della vita rustica ed alla (idealizzata) morale che all’umanità conseguono i lavori campestri. La tabacchiera, e non per caso, si presenta come un piccolo cestello di vimini, una scatoletta che imita l’intreccio dei canestri e, con quell’immagine cesellata sul coperchio che stai aprendo per cavarne un pizzico di tabacco da fiutare, ti invita ad una vita sobria e salubre, ti dice “contentati del poco, tieniti lontano dai traffici e dalle interminabili beghe delle rumorose strade cittadine”.

La nostra tabacchiera è di manifattura francese e nel decoro si attiene agli stilemi in voga all’epoca di Luigi XV, intorno agli anni Sessanta del Settecento, quando assai apprezzato è ogni attributo riconducibile alla vita pastorale ed agricola. Essa è per certo un oggetto volutamente prezioso, e il risultato d’una perizia acquistata dai maestri che da più un secolo si dedicano, soprattutto in Francia (da Bellangé a Le Bastier, da Gallanty a Barthélemy Pillieu) alla realizzazione di minuscole scatole per il belletto e per i nèi, di astucci da lavoro e da profumi. E di spolette, certi piccoli fusi cari alle dame dell’alta società ai quali si avvolgevano fili di seta da intrecciare poi durante le conversazioni nei salotti.

Accosto alla nostra tabacchiera d’argento una seconda in tartaruga. Gli anni della Rivoluzione sconsigliano l’ostentazione di tabacchiere preziose e finemente lavorate. Si riducono allora i ceselli in oro e in argento, i diamanti applicati, i nielli e le miniature meravigliose. Prende piede una produzione che privilegia materiali meno costosi e fa ricorso a tecniche non certo rozze, ma di più semplice applicazione. E radicalmente cambiano ornati e soggetti rappresentati. È il caso, per più versi esemplare, della nostra seconda tabacchiera. Sul coperchio è raffigurato un salone dell’antica Roma. Da un’ampia parete, tra due alte colonne cala un tendaggio. Scorgi su un tavolo uno scrigno donde debordano gioielli e bracciali. Appoggiata al tavolo, una matrona mostra con un gesto magniloquente una lunga collana arricchita di medaglioni. Avvolta in una tunica, è seduta davanti a lei Cornelia, la madre di Caio e Tiberio Gracco, il figlio minore al suo fianco ed il maggiore, in piedi, dietro di lei. Una scritta che corre lungo la cornice riporta in francese le parole famose: Voila mes bijoux et mes ornemens.

Nella figurazione ‘romana’ e nella postura dei personaggi riconosci evidente una piena dipendenza dalla maniera di Jacques Louis David quale si afferma fin dal 1784 con il Giuramento degli Orazi e, poi, con il Brutus del Salon del 1789. Questa immagine in rilievo di Cornelia è ottenuta con un procedimento che richiede la diligenza accurata di un esecutore, non una fine opera di oreficeria: da una matrice in ferro, si imprime a caldo la docile fibra del corno di tartaruga. Un conio che consente repliche numerose e identiche.