Nel primo pomeriggio di ieri il giudice della Session court (la Corte di primo grado nel sistema giuridico indiano) di New Delhi ha condannato alla pena capitale i quattro imputati accusati dello stupro e dell’omicidio di Jyoti Singh Pandey, la studentessa 23enne nota in India come Nirbhaya, «l’impavida». Non si tratta di una sentenza definitiva – ci sono altri due gradi di giudizio e la difesa ha già annunciato che presenterà ricorso – ma per l’India questa è la prima risposta della legge all’emergenza stupri nel paese.
Il crimine risale al 16 dicembre scorso, quando sei uomini – tra cui un minorenne – aggredirono la ragazza e il suo compagno nel quartiere di Munirka, nella parte sud di New Delhi, mentre tornavano a casa dopo una serata al cinema. Lui è stato picchiato e immobilizzato, mentre Jyoti veniva violentata ripetutamente per oltre un’ora e torturata con una sbarra di ferro per poi essere lasciata in fin di vita sul ciglio della strada. Pochi giorni dopo Nirbhaya è morta in un ospedale di Singapore, che si era offerto di provare a compiere il miracolo di salvarle la vita.
L’episodio ha scatenato un’ira e un’indignazione senza precedenti in un paese dove la violenza di genere rappresenta una delle emergenze alla quale pare non si riesca a trovare rimedio.
Il 24 dicembre migliaia di giovani hanno assediato la residenza presidenziale di Rashtrapati Bhavan chiedendo che una delegazione di studenti fosse ricevuta dal presidente Pranab Mukherjee e invocando l’intervento del governo per garantire maggiore sicurezza alle ragazze indiane. La manifestazione spontanea comprendeva diverse anime delle nuove generazioni di indiani – da chi invocava la pena di morte a chi metteva in discussione la condizione generale della donna nel paese – dando vita a una mobilitazione di massa inedita nella storia recente del subcontinente. Una presa di posizione dei giovani, senza alcuna bandiera politica, che si è subito infranta contro le cariche della polizia di New Delhi, sostituita entro la fine dell’anno dalle marce guidate dai partiti dell’opposizione. Da quel momento, per la stampa e le telecamere che hanno seguito incessantemente gli sviluppi del caso, lo stupro del 16 dicembre è diventato una questione politica, di sicurezza, rimandando a data da destinarsi il dibattito sulle radici maschiliste e discriminatorie della società indiana.
Rispondendo alle critiche di inadempienza provenienti dalla piazza, l’esecutivo e le autorità di polizia avevano assicurato una sentenza in tempi brevi e, questa volta, la promessa è stata mantenuta. In poco più di otto mesi i sei imputati sono stati catturati, interrogati, messi agli arresti e condannati in primo grado, un record per il letargico sistema giuridico indiano.
Ram Singh, 32 anni, il più vecchio del gruppo di stupratori, non è mai nemmeno arrivato alla sbarra: chiuso nel carcere di massima sicurezza di Tihar, vicino a New Delhi, dopo aver confessato il crimine lo scorso 11 marzo è morto nella sua cella, impiccandosi al ventilatore.
L’unico minorenne all’epoca dei fatti – 17 anni – è stato condannato lo scorso 31 agosto alla pena massima prevista dal codice indiano per i minori, 3 anni in riformatorio. Dalle ricostruzioni dell’aggressione pare sia stato proprio lui ad accanirsi sul corpo della vittima con la spranga di ferro, brutalità per la quale la famiglia della vittima ha esortato i giudici ad applicare ugualmente la pena di morte chiedendo una modifica lampo del codice, mai arrivata.
Il giudice Yogesh Khanna, pronunciando la sentenza nei confronti di Mukesh Singh, 29 anni, Vinay Sharma, 20 anni, Pawan Gupta, 19 anni, e Akshay Takhur, 28 anni, ha spiegato che i crimini – 13 capi d’imputazione tra cui stupro, omicidio, sequestro di persona, banditismo e sodomia – sono stati commessi in maniera estremamente «brutale, grottesca, diabolica, rivoltante e vile», provocando l’«estrema indignazione» della società, rientrando nella categoria di rarest of the rare, i casi eccezionali punibili in India con la pena di morte.
«In tempi in cui crimini orribili contro le donne sono sempre più efferati – ha continuato il giudice – la legge non può girare gli occhi dall’altra parte, non può esimersi dalla necessità di dare un forte segnale deterrente a chi si macchia di questi crimini».
Fuori dall’aula centinaia di persone hanno festeggiato la condanna a morte dei quattro, mostrando cartelli con scritto «Hang them all», impiccateli tutti. La madre di Jyoti, ai microfoni di Ndtv, ha dichiarato: «Posso tornare a respirare, sono sollevata e siamo finalmente in pace. Hanno avuto la punizione che meritavano».
Una netta minoranza sui social network esprime però il proprio dissenso. Shoma Chaudhury, managing editor del magazine Tehelka, ha sintetizzato in un tweet: «Dovremmo essere un paese che abolisce la pena di morte e dovrebbe esserci solo un valore per le società civilizzate: non uccidere. La morte non è un deterrente».