Renato Birolli, “Tassì rosso”, 1932, Milano, collezione Giuseppe Iannaccone

 

Parve a un certo punto della nostra civiltà che il destino più auspicabile per gli uomini fosse, inversamente a quello biologico, di nascere catafratti come Minerva e di morire poco più che semi. E sebbene questo sentimento sia affiorato pressoché in tutte le epoche, fu solo a partire dal XVIII secolo che da motivo sporadico si fece costante culturale. L’Emilio diffuse l’idea che una società troppo civilizzata dovesse ritornare alle fonti primitive della vita, al pari di quella particolare specie di medusa, la Turritopsis dohrnii, che una volta attinta la maturità regredisce lentamente al primitivo stato di polipo. Anche così tuttavia l’analisi del fenomeno sarebbe oltremodo ampia, ben venga dunque la mostra L’artista bambino Infanzia e primitivismo nell’arte italiana del primo ’900, proposta (fino al 2 giugno) dalla Fondazione Ragghianti , che di questo largo moto dello spirito studia una piccola sezione, tutta italiana, anzi meglio, toscana.
La cura è di Nadia Marchioni
Il lavoro della curatrice Nadia Marchioni ha preso le mosse da un gruppo di artisti, Spartaco Carlini, Alberto Magri, Lorenzo Viani e Adolfo Balduini, già isolato da Carlo Ludovico Ragghianti, i quali operarono nell’area tosco-apuana, prendendo spesso dimora in quelle stesse regioni intorno alla Valle del Serchio che avevano ispirato a Pascoli i suoi Canti di Castelvecchio. Come Pascoli (e prima di lui il Wordsworth dell’Ode on Imitations of Immortality from Recollections of Early Childhood), anche Magri aveva creduto che nelle espressioni dei semplici o dei fanciulli fosse contenuto un superiore sentimento della Natura, non ancora soffocato dall’abito scolastico. Quest’idea, che era all’origine romantica, andava alimentandosi in quegli anni di uno spirito positivista, grazie a studi sul disegno infantile come questo L’arte dei bambini di Corrado Ricci, la cui edizione originale, apparsa a Bologna nel 1887, fa ora da incipit alla mostra. In esso poteva leggersi che «i bambini descrivono l’uomo e le cose invece di renderle artisticamente; cercano di riprodurle nella loro complessione assoluta e non nella loro risultanza ottica», e altre affermazioni consimili che dovevano trovare in artisti impegnati nel superamento dell’Impressionismo l’eco che ciascuno immagina.
Il 1910 fu l’anno in cui Ardengo Soffici consacrò a Henri Rousseau un famoso articolo dov’era elogiata «la pittura degli uomini semplici, dei poveri di spirito, di coloro che non hanno mai visto i baffi di un professore: imbianchini, muratori, ragazzi, verniciatori, pecorai, mezzi pazzi e vagabondi», pittura espressa in teloni da saltimbanchi e vecchi parafuoco. Soffici elogiava le insegne: non, però, quella di Gersaint ma quella del cocomeraio dov’era «una potenza di sentimento malgrado tutto (…) l’espressione nuda e cruda di un’anima disadorna ma sincera priva d’armonia ma penetrata di realtà». Non è difficile scorgere in questa deliberata predilezione per «quella pittura che le persone intelligenti dicono stupida» un po’ di quel medesimo amore che aveva guidato D’Annunzio verso i francescani, amore compiaciuto di ultra-sibarita per il cacio forte, ma, anche e di più, il segno di una ricerca, autenticamente sentita in quegli anni, di inedite forme di rappresentazione, più complete e sintetiche di quelle offerte dalla pura resa ottica d’ascendenza impressionista.
Il Giotto plebeo di Carlo Carrà
Al cospetto degli sterminati domini di Soffici, l’interesse di artisti come Magri, Viani e Balduini appare ben più circoscritto, limitato come fu all’arte infantile e a quella toscana del Basso Medioevo. Anche entro questi confini, tuttavia, le ricerche di un Magri non dovevano apparire isolate, se Carrà nel 1916 su «La Voce» parlava di una «verginità plebea di Giotto e degli altri primitivi, combattuta e vinta dagli altri intellettualismi più tardi».
Quale forma presero tali aspirazioni? Nella sala centrale è esposto il polittico di Magri Il bucato (1913): un ordine di panni stesi, macchie di un bianco nudo e sgarbato, che corre lungo le quattro tavole, un fondo di poche semplici linee di monti ora aguzze quasi cocci ora molli, gibbose come schiccherate da uno scolaro, una processione di figure reclini, assorte, che paiono anch’esse cincischiate senza volume e, in basso, una fascia di erbe alte, eguali: un fregio. Se quelle linee scavate nella zolla tenera del colore e quei piedi, quei polsi sbucati dalle maniche senza realtà anatomica ma simili a giunture di giocattolo ricordano i graffiti tracciati dai bambini sul muricciolo della scuola, la distribuzione delle figure, le stesse pose rivelano piuttosto un calco di modelli tre-quattrocenteschi. E lo stesso può dirsi dell’altro polittico di Magri La casa colonica (1912).
Più pure e meno bizzarre appaiono invece Le Alpi Apuane da Barga (1913), la cui disposizione del colore in falde d’ora maggiore ora minore trasparenza fa pensare a un cammeo, e Il gioco della corda (1908), composizione naïf, se si vuole, di spiccato equilibrio formale. Come predilesse le ore mattinali per soggetto dei suoi quadri, così, verrebbe da dire, Magri tentò un linguaggio di forme come bagnate, alla stregua dei suoi monti, dal primo chiarore antelucano. La sua opera, che è senza dubbio legata al gusto dei primitivi, non ha nulla di fauve: vi domina piuttosto una languorosa tinta elegiaca, specialmente nell’azzurro dei suoi sfondi, dolce come di zaffiro orientale.
La ricerca di forme composte sull’antico convive con stilemi infantili anche nelle opere di Balduini che, più ancora di Magri, si esercitò nello studio delle vestigia medievali. Lo testimoniano le xilografie in mostra, tutte ricavate dai bassorilievi romanici del Duomo di Barga. Le sue tempere su cartoncino o su tavola preparata a gesso (Il ritorno dalla festa, 1920; Bambine che raccolgono fiori, 1919), pur somigliando per soggetto a quelle dell’amico, sono più rigide e meno originali. Vale la pena, ciononostante, di indugiare su un paesaggio Il paese di Trassilico (1915) per l’alta qualità del disegno e per la suggestività tonale che lo fanno somigliante a un intarsio di pietre dure. Molto superiori per sintesi e vigore furono gli esiti di Lorenzo Viani tanto nelle xilografie ricavate dai Mesi della Cattedrale di Lucca (1916-’21) quanto negli acquerelli dedicati agli scolari: vibranti, vivacissimi, senz’ombra di lezio.
Valori plastici, sodezza formale
Ma, in questa terza grande sala, alle sperimentazioni di Magri e Balduini – tra le quali possono inserirsi gli stravaganti acquarelli di Spartaco Carlini che fanno pensare a un Toulouse-Lautrec ricopiato da Ensor – si vanno sostituendo risultati di maggiore sodezza e «classicità» formale elaborati nell’ambito della rivista «Valori plastici» da pittori come Carrà, Francalancia e Rosai. Lavori eccellenti nei quali si ritrova una più travagliata ricerca linguistica che in artisti come Overbeck, Pforr o Vogel, i quali all’inizio del secolo precedente avevano ritenuto che, per disegnare al modo dei primitivi, fosse più di tutto necessario il sentire come loro. Gli studi positivistici sul disegno infantile e la grande consapevolezza formale che aveva contraddistinto le avanguardie preservarono Barga dal divenire una seconda Sant’Isodoro! Lo stesso Vittorio Pica, scrivendo nel 1898 su «Emporium» delle illustrazioni inglesi per i fanciulli (alle cui declinazioni italiane è dedicata una sala della mostra), ne parlò in termini di innovazioni linguistiche. Queste ricerche dei primi anni del Novecento non vennero disperse nei decenni successivi, se ancora ve n’è traccia nel superbo quadro che chiude la mostra Il carnevale dei poveri (1941) di Usellini: una summa, un capolavoro.