Dopo l’accordo di giovedì sulla normalizzazione dei legami tra gli Emirati e Israele, gli iraniani si sentono ulteriormente accerchiati dagli Usa, che hanno fatto da tramite, e dai loro alleati sulla sponda sud del Golfo. Paradossalmente, la Repubblica islamica dell’Iran è più filopalestinese di questi paesi arabi che ben ricordano come la leadership palestinese avesse sostenuto l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990.

Ora, ayatollah e pasdaran hanno di che preoccuparsi perché domenica il ministro dell’Intelligence israeliana Eli Cohen ha detto alla radio che i prossimi a normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico saranno Bahrain e Oman: Manama ospita la V flotta statunitense ed è un satellite della monarchia saudita che, in occasione della primavera araba del 2014, aveva mandato i carrarmati a sedare le proteste; Muscat ha ottimi rapporti con gli Stati Uniti. In segno di protesta, nei giorni scorsi gli studenti iraniani filo-regime hanno bruciato le bandiere di Israele. I pasdaran hanno dichiarato che l’accordo con «il falso regime sionista è un pugnale velenoso nel corpo della comunità islamica». Si tratterebbe di un «accordo vergognoso e satanico, progettato dal regime terroristico degli Stati Uniti», «una stupidità storica, un errore strategico».

Il capo del quartier generale delle forze armate ha affermato che gli Emirati dovrebbero rivedere il loro «vergognoso e inaccettabile accordo» con Israele, «contrario alla sicurezza regionale». «Indubbiamente, l’approccio dell’Iran nei confronti del paese vicino cambierà in linea di principio e le forze armate faranno nuovi calcoli sulla base dell’accordo», ha sottolineato. Avvertendo che «se in futuro dovesse succedere qualcosa nel Golfo Persico e ci sarà il minimo danno per la sicurezza nazionale dell’Iran, considereremo gli Emirati responsabili e non lo tollereremo».

Con il passare dei giorni, l’escalation continua. Sabato il presidente Rohani ha dichiarato che gli Emirati hanno commesso un «grave errore». In risposta, domenica il segretario generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo ha condannato le minacce della leadership di Teheran. Quello stesso giorno, gli Emirati hanno convocato l’incaricato d’affari dell’Iran ad Abu Dhabi, a cui hanno fatto la ramanzina: il discorso di Rohani era «inaccettabile». Lunedì il quotidiano ultraconservatore iraniano Kayhan, il cui direttore è nominato dal leader supremo Ali Khameneì, ha scritto in prima pagina che «il grande tradimento della causa palestinese da parte degli Emirati trasformerà questo piccolo, ricco paese, in un obiettivo facile e legittimo». Nel pomeriggio di lunedì, l’emittente qatarina al-Jazeera ha reso noto che, secondo il ministro degli Esteri degli Emirati Anwar Gargash, «la decisione di normalizzare i legami con Israele è una decisione sovrana, non rivolta contro l’Iran».

Di certo, è il pragmatismo a spingere Israele e gli Emirati a rendere ufficiale un legame costruito nel tempo. Gli emiri del Golfo sono mercanti, ben consapevoli dei vantaggi di una relazione con lo Stato ebraico, in termini di potenziale turismo ma soprattutto di intelligence e alta tecnologia.

Sono anni che l’emiro di Abu Dhabi vorrebbe acquistare gli F-15, ma finora il Pentagono ha esitato per non compromettere il vantaggio militare di Israele. Nel momento in cui gli Emirati non sono più nemici dello Stato ebraico, si accende la luce verde per questa fornitura. Per l’amministrazione Trump, l’accordo di giovedì scorso permette quindi di prendere due piccioni con una fava: isolare l’Iran e fare soldi vendendo armi.