Nell’ottobre del 1628 il galeone Batavia salpò per il suo viaggio inaugurale dalle coste dei Paesi Bassi alla volta di Giacarta per acquistare spezie per conto della Compagnia Olandese delle Indie Orientali; «Batavia» era il nome con cui all’epoca era designata l’Indonesia. Delle 341 persone che erano a bordo solo 68 sarebbero arrivate vive a destinazione l’estate dell’anno successivo, dopo che la nave aveva subito un ammutinamento, per impossessarsi del carico di oro e argento che trasportava, e aver colpito la barriera corallina vicino alle coste australiane, inabissandosi nell’Oceano.

Una tragedia, legata agli enormi interessi che dominavano l’azione senza scrupoli della Compagnia, che si consumò con il massacro di una parte dei passeggeri da parte degli insorti, e che ha ispirato lo scrittore britannico Stuart Turton. Dopo l’esordio con Le sette morti di Evelyn Hardcastle (Neri Pozza, 2019), dove un detective improvvisato viaggiava nel tempo e tra diverse identità, Turton propone ora un nuovo incontro tra la crime novel e il soprannaturale rivisitando in Il diavolo e l’acqua scura (Neri Pozza, pp. 524, euro 19, traduzione di Alessandra Maestrini e Anna Ricci) la storia della Batavia attraverso il viaggio della Saardam, una nave che percorre quell’itinerario a ritroso, muovendo dalle Indie orientali verso Amsterdam, tra oscure e misteriose presenze, delitti concreti e una vita di bordo scandita dalle rigide divisioni di classe e di genere dell’epoca. Un romanzo che sembra evocare le atmosfere di una stagione in cui mistero e indagine poliziesca convivevano, come nelle storie di Conan Doyle, Allan Poe, Christie e perfino Stevenson.

Lo scrittore Stuart Turton

La vera storia dell’ammutinamento del Batavia era già una terribile vicenda di morte e follia. Cosa ha attratto la sua attenzione al punto da immaginare che se ne potesse trarre un racconto nuovo e originale?
La cosa che ho amato di più è stata la stessa epoca storica in cui ha avuto luogo quella tragedia. Nel 1600, salire a bordo di una nave che faceva rotta per le Indie orientali era fondamentalmente una condanna a morte. Una persona su tre che salpava per quella destinazione non avrebbe mai fatto ritorno. Poteva perire in mare oppure arrivare al termine del viaggio e morire più tardi per le malattie contratte durante la navigazione o, ancora, a causa della quantità di alcol che aveva ingurgitato in tutti quei mesi passati in mare. Molto spesso le persone che salivano a bordo di quei velieri erano disperate e scappavano da qualcosa, il che significava che avevano dei segreti. E i segreti sono la linfa vitale di un romanzo giallo, quindi sono rimasto subito affascinato dalla vicenda. Inoltre, la vita di chi va per mare ha sempre un aspetto misterioso e, specie a quei tempi, ogni viaggio era accompagnato da ogni sorta di superstizione, dall’idea che il diavolo potesse cambiare in un attimo il destino della nave e dei suoi passeggeri, Insomma, erano già riuniti tutti gli elementi perché l’avventura potesse cominciare.

Come si è imbattuto nella storia della Batavia e quanta parte ha avuto nel suo lavoro la ricerca e la documentazione storica?
È accaduto per caso. Stavo andando a Singapore quando sono rimasto bloccato all’aeroporto di Perth, in Australia. Così, in attesa del volo successivo ho visitato il museo marittimo del posto dove è descritta la vicenda della Batavia. E anni dopo, quella storia terribile mi è tornata in mente. Dopodiché ho passato tre mesi a fare ricerche prima di scrivere una sola parola del romanzo. La Batavia è stata ricostruita fedelmente nella cittadina olandese di Lelystadt, utilizzando i metodi e i materiali di costruzione originali. Ora è un museo galleggiante, quindi sono andato a visitarlo e ho attinto alle conoscenze dei curatori del museo, ponendo loro mille domande. Poi ho integrato gli aspetti relativi alla nave con la lettura delle centinaia di documenti dell’epoca che sono conservati alla British Library di Londra. Per settimane ho spulciato i diari dei passeggeri della Batavia e i resoconti del viaggio che aveva compiuto. Molti dei dettagli che ho appreso in questo modo sono rispecchiati nelle vicende del libro.

A bordo della Saardam c’è un personaggio, il detective Samuel Pipps, che ricorda per metodi e temperamento Sherlock Holmes e giocherà un ruolo di primo piano nell’affrontare i guai cui va incontro la nave. Eppure, più che Conan Doyle, il creatore del celebre investigatore privato, lei cita Agatha Christie come suo riferimento letterario. Allora perché ha fatto imbarcare Pipps?
Ho letto tutti i romanzi di Agatha Christie già quando avevo tra gli 8 e i 10 anni, ma quando li ho finiti sono passato a quelli di Conan Doyle. Anche se devo dire che in realtà non amo molto il personaggio di Holmes. È troppo freddo, calcolatore, nei suoi casi non mostra alcun interesse per le persone, sembra coinvolto solo dalla sfida intellettuale che gli si presenta. Tuttavia, quando ho iniziato a pensare di scrivere una crime novel ambientata nel 1600 su un galeone olandese, ho capito subito che non era un lavoro per Hercule Poirot o Miss Marple. A loro piace sedersi e riflettere. I misteri con cui si cimentano sono sempre piuttosto «delicati». Questa era invece una grande avventura, con combattimenti, tempeste e tesori da scoprire. Poteva sembrare una storia di Sherlock Holmes che per qualche motivo era andata perduta. Quindi ho creato un personaggio simile a Holmes. Solo che alla fine ho messo in atto una piccola vendetta per punire la sua arroganza. Ho umiliato la versione di Holmes che avevo creato, l’ho messo in catene sulla nave e l’ho imprigionato, consegnando la soluzione del mistero al Dottor Watson del caso, il tenente Arent Hayes che di Pipps è la fedele guardia del corpo.

Nel romanzo non mancano gli accenti critici sulla realtà storica descritta: si tratti della condizione delle donne come dello spirito predatorio e rapace del capitalismo incarnato dai dirigenti della Compagnia delle Indie Orientali. Quanto pesano queste analisi nel suo lavoro?
Nei miei romanzi regna l’oscurità. Si tratta di storie dominate dall’omicidio e dalla morte, ma i miei personaggi sono sempre alla ricerca di un mondo migliore, più gentile ed equo e che non sia governato dalla ricchezza o dal potere: loro procedono in qualche modo verso la luce. O almeno tentano di farlo. Non stanno solo risolvendo un mistero, stanno cercando di migliorare le cose per tutti.

 

Molti dei suoi personaggi vivono in una realtà claustrofobica, imprigionati nello spazio o nel tempo. È una sensazione che fa pensare ai giorni che stiamo attraversando dove a causa del lockdown, totale o parziale che sia, ci si ritrova isolati, quasi reclusi. È un contesto, quest’ultimo, che potrebbe offrirle uno spunto narrativo?
Ho iniziato a lavorare a questo romanzo molto prima che il Covid-19 diventasse la nostra principale preoccupazione, quindi non avrei mai pensato che la claustrofobia che si respira nel libro potesse assomigliare alla mia vita reale. Poi, all’improvviso, mi sono reso conto che stavo scrivendo un libro sull’essere rinchiuso su una nave mentre ero rinchiuso a casa mia. È stato orribile. Per fortuna avevo costruito anche degli spazi ariosi attraverso i quali i personaggi potevano fuggire o prendere perlomeno una boccata d’aria. Ho finito per impostare alcune scene extra in quegli spazi, solo per respirare mentre scrivevo. Perciò, per rispondere alla domanda, penso di aver già scritto senza esserne consapevole la mia storia sulla pandemia e non ho intenzione di scriverne un’altra. Ho il sospetto che tra due anni tutto ciò che potremo leggere saranno storie dedicate alla malattia, alle pestilenze e al lockdown. Personalmente ho intenzione di scrivere qualcosa di diverso: una storia che esprima speranza, felicità, fiducia nel ritorno ad una vita normale. Penso che ce lo meritiamo dopo tutto questo.