Da tempo i registi si siedono sul lettino degli psicoanalisti e gli psicoanalisti vanno nelle sale cinematografiche. Si potrebbe parlare di un’amicizia di vecchia data. Si potrebbe perfino ipotizzare che, almeno in parte, cinema e psicoanalisi hanno una radice comune. Leggendo il Sigmund Freud dell’Interpretazione dei sogni, ci si imbatte non di rado nelle disavventure di medici ebrei viennesi che stentano ad accedere alle carriere universitarie, osteggiati dall’establishment accademico cattolico della Felix Austria, nei loro sogni (in senso letterale), nelle nevrosi che hanno contratto. Chi, leggendone, non ha messo per un momento da parte i casi clinici, per gustare invece il più puro spirito dello humour ebraico, che ride perfino delle sventure ataviche? Non è forse lo stesso repertorio a cui il cinema – partendo da Ernst Lubitsch e i fratelli Marx e arrivando ai fratelli Coen, per citare un’altra coppia della comicità yiddish hollywoodiana tra le più celebri – ha attinto a più riprese, trasformandolo quasi in un linguaggio internazionale della comicità? Insomma, dietro Woody Allen c’è una storia di relazioni segrete tra cinema e psicoanalisi.
Anche venendo a tempi più recenti, il rapporto tra cinema e psicoanalisi non ha smesso di rinnovarsi in nuove forme. Con i suoi saggi e le brillanti recensioni di film, il filosofo sloveno, marxista eterodosso, Slavoj Žižek ha sdoganato all’interno della teoria e della critica cinematografiche il non facile gergo di Jacques Lacan, rendendolo così disponibile non solo a una raffinata teorizzazione critica di impianto post-strutturalista, ma anche al momento più pop – o, se vogliamo, nerd – della discussione tra cinefili, e ‘post-cinefili’.
In questo orizzonte così vasto e mobile, non è affatto intempestiva l’idea di riprendere in considerazione anche il contributo ispirato a Carl Gustav Jung. Ci pensa il bel volume Jung e il cinema Il pensiero post-junghiano incontra l’immagine filmica curato da Christopher Hauke e Ian Alister, che l’editore Mimesis pubblica meritevolmente nella bella traduzione di Micaela Latini (pp. 299, euro 26,00), non a caso con qualche anno di ritardo rispetto all’uscita dell’edizione originale. Tra l’altro, Jung, oltre a essere l’erede diseredato di Freud e fondatore poi di un proprio orientamento analitico, è stato un appassionato spettatore di film, come ricordano i curatori e praticamente tutti gli autori del libro. Il contributo junghiano al dibattito sui rapporti tra cinema e psicoanalisi era già arrivato in Italia da qualche anno. Pare però non aver avuto l’attenzione che avrebbe meritato, almeno presso le «agenzie» che animano tale dibattito: la critica militante, la teoria, il discorso giornalistico.
Com’è noto, la psicoanalisi junghiana è fortemente incentrata attorno al concetto di «archetipo». Ciò ha fatto sì che, com’è ovvio che fosse, essa trovasse immediatamente una sponda soprattutto nella storia delle religioni e, per venire a una ricerca più specialistica sulle immagini, negli studi di iconologia. Ciò ha avuto per conseguenza il fatto che un concetto come quello di archetipo si diluisse a volte in una considerazione di carattere culturologico, e non più psicologico, sulle leggi che regolano le trasformazioni di un immaginario o di un ‘inconscio’ collettivo, di cui si sospetta a volte che sia tutto sommato più orientato alla fruizione delle immagini che all’organizzazione delle energie psichiche. Il volume su Jung e il cinema interviene, in questo senso, in modo salutare, riabilitando una concezione schiettamente psicologica di archetipo. Penso in particolare al bel saggio Sensibilità gay, l’ermafrodita e i film di Pedro Almodóvar di James Wyly, che lavora sull’archetipo dell’ermafrodito nel cinema di Almodóvar. Sarebbe stato facile portare il discorso in una tanto generica quanto seducente tesi sulla genealogia mediterranea, classica, pagana di questo archetipo. Il saggio non cede a questa tentazione e non viene meno al compito (critico, teorico e analitico) di suggerirci che cosa possiamo trovare nel lavoro di un autore, quale ne sia il significato più profondo. Non un esercizio di stile sulla cultura queer nella Spagna post-franchista della movida culturale; al contrario una seria interrogazione sulle possibilità che il cinema offre per approfondire la nostra conoscenza della psiche umana.
Un altro regista la cui opera è discussa nel volume è Steven Spielberg. È sintomatico, tra l’altro, che molti contributi si concentrino sugli autori di cerniera tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso: sembra quasi che l’approccio junghiano trovi il suo luogo d’espressione ideale in quel misto di immaginario diffuso e citazionismo emergente a cui diamo a volte il nome di «cinema postmoderno». Il citazionismo va inteso in senso ampio: non si citano solo determinati film. Si evocano gestualità, atmosfere, moduli narrativi e iconografici – vorrei quasi dire Pathosformeln – del cinema classico, chiamandone in causa il potere catartico, non più nel senso (debole) sociologico di un’identificazione con l’eroe, ma nel senso (forte) filosofico (e psicoanalitico) di una rigenerazione della passioni. È il caso della figura del ritorno a casa che accompagna il cinema di Spielberg nelle sue varie declinazioni e tra i diversi generi che affronta. D’altronde, quello della «catarsi» cinematografica è un tema che merita oggi di essere ripensato.