Tensione, forze dell’ordine in tenuta antisommossa, gabbie su gabbie e torrette d’avvistamento, psicofarmaci e tracce sui corpi di autolesionismo. Queste le immagini del centro per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo riportate dal deputato Riccardo Magi e dall’avvocato Asgi Gianfranco Schiavone dopo le visite dei giorni scorsi a seguito della morte di un uomo all’interno della struttura, su cui sta indagando la magistratura. Ma a leggere articoli e commenti sulla vicenda sembra che pochi si ricordino che il centro di Gradisca d’Isonzo è già stato nel 2013 al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e della classe politica a causa dei frequenti episodi di protesta all’interno, tra cui uno segnato dalla tragica morte di un uomo caduto dal tetto per sfuggire ai lacrimogeni usati per sedare la rivolta. Proteste e momenti di tensione che certo non mancavano – e non mancano – negli altri centri di identificazione ed espulsione, come si chiamavano allora, in tutt’Italia, da Torino a Bari e alla Sicilia. La situazione a Gradisca diventò talmente grave che si arrivò alla chiusura del centro così come, nel giro di alcuni mesi, molte strutture chiuse perché danneggiate, non furono più messe in funzione. Grazie anche al lavoro di denuncia di molte associazioni e di Luigi Manconi, che alle criticità di quelle strutture ha dedicato la sua attività alla Commissione diritti umani del Senato.

Ma il risultato più rilevante di quella stagione politica è stata la messa in discussione dei Cie come strumento di gestione dell’immigrazione irregolare alla luce dei (pochi) risultati ottenuti dalla loro creazione (nel 1998, con la legge Turco Napolitano). Uno strumento su cui avevano puntato i governi di centro-destra nell’ambito della loro strategia di criminalizzazione verso l’immigrazione “clandestina”, introducendo con la Bossi-Fini nel 2002, col «Pacchetto sicurezza» nel 2008 e ancora nel 2011 una serie di restrizioni tra cui il prolungamento del termine massimo di permanenza nei Cie addirittura fino a 18 mesi, una misura pensata come strumento di deterrenza rispetto all’immigrazione irregolare ma che si è poi rivelata portatrice di grandi sofferenze e decisamente inutile. L’aumento dei tempi di detenzione, infatti, non ha migliorato il tasso dei rimpatri effettuati se, allora come oggi, esso si mantiene costante e circa la metà dei trattenuti vengono alla fine rimpatriati, data la nota e difficoltà di stringere accordi di riammissione coi paesi di origine e l’impossibilità di espellere molte delle persone trattenute perché in Italia da tanto tempo con legami familiari consolidati, o perché apolidi o senza alcun legame col paese di origine.

Tuttavia, questi preziosi ragionamenti sulla dubbia efficacia dei centri per il rimpatrio non sono evidentemente bastati a scindere il binomio immigrazione/sicurezza e sono tornati di moda nel 2017 quando il ministro dell’interno Minniti ha voluto rispolverarla prevedendo la creazione di un Cpr in ogni regione rispetto ai cinque allora attivi e annunciando, ancora una volta invano, l’intenzione di intensificare i rimpatri. La ricetta è stata poi ereditata e rilanciata dal suo successore che col decreto sicurezza del 2018 ha subito allungato a 6 mesi il tempo di trattenimento, ha aperto al trattenimento di richiedenti asilo, ha semplificato le procedure per la creazione di nuovi Cpr e ha fortemente tagliato, come per i centri di accoglienza, i fondi disponibili azzerando servizi e garanzie. E siamo a oggi, con 8 centri aperti – da ultimo l’ex carcere di Macomer – i cui enti gestori hanno vinto bandi al ribasso e non riescono ad assicurare un numero adeguato di operatori e di servizi a circa 500 persone costrette per un tempo molto lungo a vivere reclusi e sospesi. Con il rischio evidente di dar vita a situazioni di tensione altissima difficilmente controllabili senza l’intervento delle forze dell’ordine. Il punto vero di qualsiasi discorso sui centri per il rimpatrio dovrebbe partire da alcune domande: chi sono le persone che finiscono in queste strutture? Chi tra di loro rappresenta davvero un pericolo per la società e deve essere trattenuto? Ha senso ricorrere a politiche che hanno dimostrato di aver fallito? La privazione della libertà ha contrastato il fenomeno dell’irregolarità o sono altri gli interventi necessari come, per esempio, un provvedimento di emersione per chi ha un lavoro e, finalmente, la riforma dell’impianto della Bossi-Fini?