Il titolo fa il verso a un noto saggio di Sigmund Freud, ma ne sovverte il senso con lievità e un candore che predispone bene alla lettura. E se per lo psicoanalista austriaco il disagio della civiltà era il lato oscuro da mettere in luce, questo La civiltà del disagio dello scrittore pachistano Mohsin Hamid (Einaudi, pp. 197, euro 19,50) si sofferma sul fatto che in quella che ha visto il suo passaggio dalla giovinezza alla maturità è una società fondata sullo smarrimento, il disincanto, la sofferenza per identità sociali, religiose, culturali andate in frantumi. Ed è proprio sulla necessità di prendere congedo dalle visioni identitarie che il libro però si dilunga con esiti condivisibili. L’identità preconfezionate, astoriche sono, scrive Moshin Hamid, una gabbia da distruggere per evitare che il disagio in tutte le sue sfumature, dunque anche quelle omicide e nichiliste, si diffonda come un virus letale. Scrittore di successo – i suoi romanzi, da Pakistano nero al Fondamentalista riluttante al Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente hanno venduto sempre molto, con la critica prodiga di complimenti – è nato in una paese riottoso a qualsiasi semplificazione.

Pastiche orientalisti

I suoi genitori, che hanno fugacemente conosciuto la democrazia, passando però gran parte delle loro vite sotto dittature militare hanno fatto la scelta di mandarlo a laurearsi negli Stati Uniti. New York diventa così la sua città. Si laurea, comincia una carriera brillante nel mondo del business, ma con il desiderio neanche tanto nascosto di vivere scrivendo romanzi. E questo libro parte proprio dalla metropoli americana. La forma assunta è quella dei «dispacci» inviati a immaginari lettori, sviluppando riflessioni ponderate, ma legate sempre a una specifica contingenza, consapevole però che Occidente e Oriente sono «invenzioni» ideologiche. Ci sono echi delle tesi sull’orientalismo dell’indimenticabile Edward Said, anche se è la letteratura a farla da padrone.

Durante il periodo statunitense le origini pachistane sono un dettaglio irrilevante, un po’ come avere i capelli castani o neri. Laico a vocazione cosmopolitica, secolarizzato nei confronti dell’islam, ritiene che la fede sia un fatto privato. Il suo stile di vita da «maschio musulmano occidentalizzato» è però bruscamente messo in discussione nel settembre 2001.

Sguardi allarmati

hamid
L’attacco alle torri gemelle lo vedono condurre un’esistenza bohemienne, tra party multietnici, sessualità libera, frequentazione appassionata dell’underground artistico. Dopo l’11 settembre sente su di sé sguardi allarmati. Quando prende un aereo per spostarsi viene spesso fermato e le domande della polizia aeroportuale lo sgomentano: «ha avuto un addestramento militare da qualche parte?», «da dove viene?», «perché è negli Stati Uniti?». Capisce che il suo nome è stato inserito in una lista di musulmani da tenere d’occhio.

Il clima plumbeo della cosiddetta guerra al terrorismo è costellato di notizie di amici musulmani fermati, interrogati, rinchiusi per giorni in carcere. La stampa ha accettato i diktat del Pentagono e si autocensura in nome della sicurezza nazionale. Per Hamid la scelta, non facile, è lasciare l’amata New York. Sceglie Londra, metropoli che immagina poco accogliente. È invece più aperta, tollerante, meno prigioniera dell’ossessione securitaria che invece dominava di quella oltre Atlantico. Legge avidamente i giornali e constata che sono pubblicati articoli, reportage e commenti in aperto dissenso verso la politica governativa del laburista Toni Blair, compagno di guerra di George W. Bush. Il primo romanzo va bene, può smettere di fare il business man. Si innamora, si sposa e nasce la figlia.

L’ambivalenza di un paese

Londra è però una tappa, anche se lunga, perché decide di tornare in Pachistan, a Lahore, sua città natale. I testi dedicati al ritorno alle origini raccontano di un paese nato da una scissione dall’India e che ha conosciuto un’altra violenta e fratricida separazione, quella del Bangladesh. Le pagine sulla vita a Lahore gettano luce su un paese ostaggio di stereotipi difficili da digerire. Alleato prono agli Stati Uniti, ma anche paese che per un cervellotico sogni di potenza regionale tollera la presenza di milizie armate taliban. Avamposto occidentale per una parte dei media mainstream occidentali, ma prima nazione dove un generale ha tentato di islamizzare il paese. La connessione a Internet è a ore alterne, mentre i siti più cercati con i motori di ricerca sono quelli porno, nonostante la censura e l’oscuramento periodico della Rete imposto dall’autorità dopo qualche attentato di uno dei gruppi armati dell’islam politico radicale. I militari non sono al potere. C’è la democrazia. Il governo è debole, così come le struttura statali, ma l’esercito esprime ancora un forte potere di condizionamento. La sua bestia nera è l’India.

Hamid parla di un paese sempre sull’orlo di una guerra con il vicino. Ma non tollera che la difesa nazionale legittimi intolleranza verso i cristiani o altre minoranze, che avverte l’autore sono rappresentate da milioni e milioni di persone. Non cade però mai nella disperazione. Vive lo sconforto di chi vede il proprio paese prigioniero di conflitti sanguinosi che ne impediscono la crescita culturale, sociale. Ma spera, ingenuamente, che la circolazione delle idee e la modernizzazione culturale possa alla fine prevalere. Vede nella Rete e nella televisione un potente fattore di democratizzazione della realtà pachistana, dimenticando però che possono essere altrettanto potenti strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica e di controllo sociale. È pero consapevole di un fattore, che rende la situazione incandescente, legittimando anche il fondamentalismo religioso: quello che vede la sera andare a dormire una minoranza sazia e una moltitudine di affamati. Fino a quando la disuguaglianza scandirà la vita sociale non ci sarà nessuna via d’uscita per un paese che conosce tre, quattro attentati al mese, dove intere regioni sono state in mano ai pashtun e ai taliban fino a quando l’esercito è intervenuto provocando la morte di migliaia di combattenti e di persone civili.

Un pacifico uomo in rivolta

Sono annotazioni su un paese molto amato. Non è quella di Hamid però una riscoperta di radici o identità arcaiche. È un uomo innamorato dell’umanità. L’islam politico radicale lo trova all’opposizione, ma scrive che non esiste l’islam, ma molti islam. Non lesina critiche verso le politiche neocoloniali che l’Occidente riserva al Pachistan o al Bangladesh. Scrive appassionate pagine contro le disuguaglianze sociali, ma ricorda che ogni uomo o donna è unico, ogni diversità esprime a suo modo l’umanità. Le tesi di Moshin Hamid sono sicuramente una versione light di un approccio postcoloniale, con tutte le ambivalenze, contraddizioni e possibilità di liberazione che il postcoloniale porta con sé. I suoi sono testi ingenui, ma struggenti. E disarmanti, come quando elegge Sostiene Pereira di Antonio Tabucci a esempio inarrivabile di romanzo politico ma ideologico, risvolto letterario e pacifico di quell’uomo in rivolta conosciuto attraverso Albert Camus. I suoi dispacci aiutano a capire e comprendere realtà che un certa attitudine orientalista liquida come arcaica, sottosviluppata. Quello che emerge è invece la tensione verso un regno della libertà che metta fine, anche a quelle latitudini, al perdurante e soffocante regno della necessità, che a Est come a Ovest, a Nord come a Sud scandisce le nostre vite.