Più satira antisovietica scritta nella lingua di Esopo delle stelle che fantascienza, La chiocciola sul pendio di Arkadij e Boris Strugackij (Carbonio, pp. 267, e 16,50) somma alla più tipica vis trascendente russa la prospettiva angosciante, in sostanza distopica, di un’umanità votata all’autodistruzione, mentre furibonda si ribella la natura violentata. Arkadij, filologo e giapponesista e Boris, astronomo, hanno tracciato tra gli anni Sessanta e Settanta la strada russa alle galassie, sempre segnata dalla proiezione di dilemmi etici e morali in cornici spaziotemporali variamente trasposte: dal grande ciclo di romanzi L’universo del Mezzodì, che infiltra agenti terrestri del futuro nei passaggi cruciali dell’evoluzione storica di primitive civiltà aliene, a Picnic sul ciglio della strada, da cui è tratto lo Stalker di Andrej Tarkovskij.

In Chiocciola sul pendio, come nel coevo Brutti cigni, l’efficace espediente della letteratura di genere come riserva di caccia del libero pensiero arriva a un insormontabile punto di attrito con la censura sovietica. La Chiocciola venne pubblicata solo nel 1972 a Francoforte, poi tradotta in decine di lingue. In italiano esisteva una versione dall’inglese uscita per Urania; solo oggi, quindi, viene pienamente acquisito, nella fedele e puntuale resa di Daniela Liberti, uno dei testi più suggestivi e inquietanti della fantascienza mondiale.

In un non luogo e non tempo non troppo distanti dal nostro, ai margini di un mai focalizzato Continente, si osservano e si fronteggiano due entità polimorfe: una foresta bellicosa e bullicante, inestricabile, sinistra ma dotata di energia ammaliatrice, capace di crescervi attorno alle gambe mentre girate un attimo la testa, al cui interno esseri umani a uno stadio preindustriale cercano di ritagliarsi un arduo spazio vitale. A sovrastare uomini e foresta, sopra un metafisico dirupo, un altrettanto tentacolare Direttorato, avamposto a sé stante di una civiltà progredita ma farraginosa, così avanzata nel controllo delle coscienze da far comunicare telefonicamente l’irragiungibile Direttore, in contemporaneo e individualmente differenziato scambio, con ciascun addetto.

Un po’ esploratori un po’ ranger, gli scienziati del Direttorato sono impotenti di fronte al groviglio biomorfo della foresta, alla cui mitica aura finiscono per soggiacere; in realtà, gli infuocati morti viventi e le nuvole rosa che sono capaci di risucchiare il pensiero, non sono altro se non sofisticati strumenti tecnologici di una occulta civiltà superiore.
La narrazione segue, a capitoli alterni, il mondo del Direttorato e degli aborigeni della foresta, attraverso due protagonisti in realtà non pertinenti, estranei al loro contesto, uomini superflui secondo l’antica tradizione letteraria russa: il primo, dominato da un’irriducibile sete di conoscenza traslata nel mistero della foresta, proviene dal Continente e ha solo un cognome, Perec, ebreo come gli Strugackij e quindi altro per eccellenza. Il secondo, Candide solo nel nome, denuncia una volteriana essenzialità: è uomo della civiltà burocratizzata, assimilato ai primitivi dopo che un incidente aereo lo fece cadere, già molto tempo prima dei fatti, nella foresta.

Entrambi, in molti luoghi testuali, diventano specchio reciproco, e al tempo stesso entrambi sono riflesso preciso, anche per età e attitudini, dell’istanza autoriale bina e una. In un denso reticolato di riferimenti e proiezioni etiche e culturali, che costituisce la vera ossatura del testo, più di tutto incide l’affresco inclemente di una società afflitta dal mastodontismo degli apparati e dallo sfacelo infrastrutturale: carta carbone della tarda Unione Sovietica, nella quale le atmosfere kafkiane, apparentemente implacabili, sono stemperate dalla faciloneria cameratesca e irriverente con cui il dogma burocratico si disinnesca da sé, si autoproclama carta straccia.
Già saturo di motivi che saranno di Sorokin, il testo della Chiocciola è, più in generale, luogo di partenza di molti tra i fili di quella vena ucronica che domina la letteratura russa contemporanea.