Il lavoro sulle immagini, la scelta accurata delle angolazioni, delle prospettive; la prospettiva obliqua, sincopata attraverso cui si guarda alla storia, come salendo, scendendo o interrompendo all’improvviso scale di pianoforte; la messa in scena delle condizioni di luce, di fragili, cadenti abbagli invernali, che sono sempre condizioni di cinema, la carne tremula del cinema: ecco, Serre moi fort (titolo italiano Stringimi forte) di Mathieu Amalric, tra i film più belli visti di recente, è questa rapsodia di luce, l’impressionarsi sempre miracoloso di una luce livida e ancora vivida sulla «pellicola», e la ricostruzione delle ragioni stesse del filmare, cioè dell’immaginare. E dico rapsodia non casualmente, visto che questo venire alla luce del film, questo processo di fotosintesi per cui sorgono e bruciano le scene in un crepitare iemale, implica tutto un flusso sonoro di scale incagliate all’inizio, «ancora queste scale! suona, dai! vedi che sai suonare?!», e poi armonie, sonate per pianoforte, tra Beethoven, Debussy, Rachmaninov, fino al folk di Cherry di J.J. Cale.

TANT’È CHE, mutando il punto di vista, si potrebbe pensare che le immagini sorgano da uno scoccare di nota, da un cenno fonico (o cacofonico: appunto le scale sbagliate), che siano cioè l’inferenza del suono, della musica, con preponderanza di Jean-Philippe Rameau trasposto al piano. Cioè, si direbbe, il pathos, certo struggimento del barocco che qui sembra intessere ogni sequenza, il mistero degli scorci grondanti nuvolaglia, degli spiragli luminosi aperti tra i rami, per cui vale l’idea di Giuseppe Montesano a proposito di Vivaldi, in cui «le passioni diventano se stesse solo nella lucidità della forma». In Serre moi fort il dolore, ma anche la speranza, l’endemico istinto di sopravvivenza si fanno forma, cinema; si fanno forme, cose come foglie intrise dello stillicidio di note di Rameau, pioggia di foglie improvvisa su Lucie mentre è seduta sul prato; si fanno montaggio, fioritura di stacchi attraverso cui Clarisse e Marc comunicano sul piano di una dinamica dello sguardo che è di lei, lei vede le vite dei famigliari, ma non del marito il quale può solo sentirla palpitare dall’altra parte dello schermo.

È UNA CARTOGRAFIA dell’immaginazione, la struttura di uno spazio cinematografico in cui guardare, sentire significa comunicare con i metaplasmi, con gli spettri pullulanti in ogni tentativo cinematografico e tanto più nei grandi film in cui questi fantasmi invadono il piano del reale. Allora Serre moi fort si delinea come un film sensistico, in cui i sensi espansi, esplosi, esposti alle intemperie dell’esistenza, aprono spiragli tra le dimensioni, come quando Clarisse scava tra la neve accumulata sul parabrezza di un’auto arrivando al vetro, a una porzione di vetro, che è lo spazio che la distanzia da Marc e dallo spettatore.

LO STESSO spiraglio che s’apre subito, all’inizio del film, luce tra le foglie: è l’accensione dell’immaginazione di Clarisse che letteralmente farà, girerà il film, e sarà il tunnel trasparente, traslucido attraverso cui parlare, sussurrare, suggerire cose, proprio la sua vita, i suoi movimenti, a Marc, in sequenze indimenticabili che testimoniano, scandiscono l’ingombro, la massa insormontabile della mancanza, l’assenza, il «mai più», e fanno pensare a un altro capolavoro, a Senza fine di Krzysztof Kieslowski, forse il suo film più teorico, in cui le immagini cinematografiche erano la sostanza del tempo, dell’eternità. Scavo teorico implicito anche nello sguardo di Amalric che non è nuovo a tali prospettive se si pensa al sostrato letterario di Le stade de Wimbledon; alla fenomenologia del palcoscenico in Tournée o del canto di Barbara. Insomma è quel ritrovare se stessi da parte dei sensi solo nella lucidità, nella misura della forma, regno di fantasmi, di segni fugaci eppure sempre ritornanti: basta premere un tasto e il film ricomincia, gli spettri ricompaiono.
In Serre moi fort la forma cinematografica diviene andirivieni tra l’immaginazione di Clarisse e quel che resta della sua realtà: il film si riempie di quel sentire che la donna gli dona, gli riversa addosso per svuotarsi e poi fuggire. Il cinema, le scene, la materia sensibile di cui è fatta ogni scena, s’impregnano via via di quel sentimento espanso, esploso di cui Clarisse straripa: è il suo lascito al mondo, anzi alla pelle del mondo che è pellicola e diviene scrittura del mondo, qualcosa come il barocco elementare di Rameau o di Vivaldi, dove le cose s’intessono di suggestione e vertigine e risuonano d’arcano.