Quando il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato una feroce battaglia contro i rumors on line, si sapeva che a breve sarebbero arrivati numeri importanti. Si pensava anche che in mezzo a qualche inconsapevole weibo user, gli utenti del social network più utilizzato in Cina, sarebbero finiti i soliti: attivisti ed esponenti delle minoranze etniche meno inginocchiate al diktat di Pechino. E infatti puntuale è arrivato il primo grosso colpo della campagna di Xi Jinping: in Xinjiang, la regione a maggioranza musulmana nel nord ovest cinese, sono state arrestate 139 persone, colpevoli di aver postato messaggi di estremismo religioso, «inneggianti alla jihad». Un contadino di Hotan è stato arrestato per aver postato un testo sul secessionismo uighuro, letto trentamila volte.

Ancora una volta, dunque, la questione uighura emerge con forza: da un lato il governo di Pechino è intransigente con qualsiasi cosa non sia in linea con la politica centrale, dall’altro la resistenza dei musulmani cinesi è forte e si manifesta attraverso l’uso massiccio di internet in chiave politico-indipendentista. È una guerra a bassa intensità quella che si vive in Xinjiang, durante la quale, periodicamente, si segnalano episodi di violenza e scontri tra poliziotti e membri dell’etnia cinese e pseudo «terroristi» e popolazione uighura. Come il Tibet – dove nei giorni scorsi una protesta è stata sgominata a colpi di fucile dalla polizia – la regione dello Xinjiang rappresenta il problema interno più grave per il governo centrale, teso ad assicurare la consueta stabilità senza alcun possibile disturbo in occasione del Terzo Plenum del Comitato Centrale del Partito che si svolgerà a novembre.

Del resto gli uighuri hanno le proprie regioni: abitanti di una delle regioni più strategiche per la Cina – confina con otto stati e costituisce un importante bacino di risorse – prima erano discriminati in quasi tutto il resto del paese (con problemi a trovare un alloggio e un lavoro, data la loro pessima fama propagata dai cinesi han), ora faticano a trovare una posizione sociale anche nella loro terra. Lo sviluppo dell’Ovest, il «go west», lanciato dal governo centrale li esclude infatti dai posti chiave. A fare i soldi, grazie alle opportunità garantite dagli incentivi statali, sono sempre gli han.

Alcuni giorni fa anche il New York Times si è dedicato all’argomento mettendo in evidenza un dato inequivocabile: le molte richieste di lavoro in Xinjiang sono tutte destinate agli han. Questa diseguaglianza economica, unita alla colonizzazione cinese di interi territori uighuri (che oggi costituiscono solo il 49% della popolazione della regione), alla difficoltà di mantenere intatte cultura, religione e lingua (secondo esperti le nuove generazioni di uighuri non conoscono la propria lingua a causa del prevalere del mandarino nelle scuole, con la conseguenza del rischio di perdita totale dell’antica lingua uighura), costituiscono le basi di una latente pericolosità sociale di quelle minoranze uighure inclini alle sirene dell’indipendentismo. Agli uighuri minorenni vengono imposte restrizioni per recarsi nelle moschee, così come per molti uiguri è assai difficile ottenere il passaporto. Chi ci riesce finisce spesso per essere interrogato dai funzionari della sicurezza cinese.

Rispetto all’ultima ondata di arresti, Dilshat Rexit, un portavoce del Congresso mondiale degli uiguri che ha sede all’estero, ha detto alla stampa che le affermazioni di Pechino sarebbero «una distorsione totale della verità, dato che gli arrestati avevano solo espresso malcontento per il dominio cinese e la repressione sistematica della zona».