C’è una Polonia indomita che è accorsa a Varsavia nella serata di ieri. Migliaia di persone compatte per stringersi intorno a chi dice «nie» alla messa al bando dell’aborto terapeutico. Una stretta popolare che sembra quasi una risposta alla morsa orchestrata il giorno precedente dalle forze dell’ordine di fronte alla sede del Tribunale costituzionale, organo politico e politicizzato dietro alla sentenza choc ufficializzata questa settimana.

Giovedì sera circa 150 persone – tra le quali anche Marta Lempart, numero uno dello «Sciopero nazionale delle donne» (Osk) – sono state tenute in scacco per almeno 7 ore da un cordone della polizia che le ha circondate. L’unica condizione per uscire dalla stretta era quella di esibire un documento di riconoscimento. Alla fine quasi nessuno ha desistito e almeno 14 persone sono finite in diversi commissariati. «La polizia ha trasportato le persone qua e là in tutto il voivodato della Masovia», ha spiegato Lempart (la regione in cui si trova Varsavia, ndr).

Come c’era da aspettarselo, ieri non tutti sono riusciti a raggiungere la capitale per diverse ragioni. La mobilitazione è dunque andata avanti anche negli altri centri del paese. «Tutto il paese è in rovina. Ne ho abbastanza. Ogni essere è dotato di ragione e ha il diritto decidere per sé», racconta una donna di 63 anni con indosso una mascherina nera attraversata dal fulmine rosso, simbolo virale delle proteste degli ultimi mesi.

Da registrare in numerose piazze della Polonia anche la partecipazione massiccia della comunità Lgbt alle proteste: «A soffrire in questo tipo di situazioni sono anche i padri dei bambini venuti al mondo con gravi problemi di salute», spiega una giovane attivista. Con questo verdetto, la corte composta a maggioranza da giudici vicini al governo della destra populista, Diritto e giustizia (PiS), ha reso carta straccia l’accordo legislativo del 1993, accettato un po’ da tutti tranne che dalla chiesa. Almeno allora alle cittadine veniva lasciata la possibilità di ricorrere all’aborto in caso di rischio di malformazioni del feto o in presenza di patologie gravi.

Ormai le polacche possono interrompere volontariamente una gravidanza soltanto in due casi: quando la vita della madre è in pericolo o quando esiste una prova che la gravidanza è il risultato di uno stupro. «Lanciamo un appello a tutti i medici in Polonia a ignorare questa “pseudo-sentenza”, a non applicarla. Essa non ha niente a che fare con tutela dei diritti dell’uomo e cittadinanza», ha commentato l’eurodeputato e leader del partito di sinistra «Primavera» (Wiosna) Robert Biedron che ha anche promesso di portare la questione a Bruxelles sul tavolo della Vicepresidente della Commissione europea per i valori e la trasparenza Vera Jourová.

La verità, purtroppo, è che con la pubblicazione della sentenza della corte sulla Gazzetta ufficiale, nessuno nella comunità medica ora può permettersi di fare il passo più lungo della gamba. Chiunque adesso aiuti una donna ad abortire per motivi terapeutici, con o senza camice bianco, rischia fino a tre anni di carcere.

Negli ultimi mesi alcuni ospedali hanno continuato a eseguire interventi approfittando del fatto che il verdetto dello scorso ottobre non era ancora stato ufficializzato. Sì, è vero, le conseguenze psicologiche legate all’eventualità di far nascere un bambino gravemente malato o morto potrebbero essere considerate in alcuni casi alla stregua di un pericolo grave per la madre. Eppure, allo stato attuale, i margini di manovra per eseguire un aborto in Polonia sono ormai ristrettissimi. Ecco perché i cittadini che non ci stanno hanno cominciato a pensare in grande puntando a un cambiamento trasversale. Chi lo sa, magari attraverso l’organizzazione di un referendum come in Irlanda per liberalizzare nuovamente la legislazione e riportarla a prima del compromesso del 1993.

L’Osk ha annunciato  una tregua nel fine settimana in vista della giornata clou della raccolta nazionale di fondi organizzata in tutto il paese dalla «Grande Orchestra di solidarietà natalizia» (Wosp). Un evento tristemente noto anche per l’omicidio dell’ex-sindaco di Danzica Paweł Adamowicz, accoltellato a morte due anni fa su un palco proprio all’evento finale della Wosp nella sua città natale.