Non si è forse mai letto quanto si legge oggi. Una pura, assoluta testualità ci raggiunge ovunque in ogni momento della giornata, scorrendo di là dal vetro sempre più infrangibile degli schermi che carezziamo con gli indici come interminabili rotoli da svolgere. In base a ciò che leggiamo di continuo e senza sforzo, a quanto indugiamo su un passaggio o a quel che ripetiamo più spesso nel giro strettissimo dei nostri epistolari, le controverse matematiche dei media che adoperiamo per farlo tentano di indovinare chi siamo: cosa, specificamente, desideriamo, di cosa abbiamo bisogno, cosa leggeremmo ancora volentieri nella mole interminata dei contenuti disponibili.

È PROPRIO L’INEDITA disponibilità, l’accessibilità vertiginosa di quasi tutto ciò che sia mai stato scritto a rendere paradossalmente più difficile il lavoro degli algoritmi, che ci conoscerebbero assai più intimamente se fossimo invece costretti a scegliere, ad ingegnarci per ricordare e poi per ritrovare ciò che ci pare di aver letto, ad architettare gli spazi in cui leggiamo, ad attraversare le letture senza poterle interrogare con una barra di ricerca. Alle dolcezze e ai pericoli di una simile costrizione, che ha segnato la nascita e lo sviluppo della modernità occidentale fino all’età dell’alfabetizzazione di massa, è dedicato il nuovo libro di Lina Bolzoni, da poco uscito per Einaudi (Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, pp. 288, euro 30).
Conversando direttamente coi libri, le carte e i popolosi scaffali dei maggiori protagonisti dell’Umanesimo e della prima modernità, in questo saggio chiarissimo e sobriamente incantato Bolzoni ci permette di compiere ancora una volta la coinvolgente stregoneria che anima da molto tempo la sua curiosità scientifica: esplorare il passato, e in special modo il Rinascimento, assumendo la prospettiva dei suoi protagonisti, immaginarsi contemporanei di Erasmo e Poliziano (o almeno diretti destinatari delle loro lettere e interlocutori dei loro dialoghi), viaggiare nella memoria più che nel tempo.

SI TRATTA DAVVERO di stregoneria (di negromanzia per essere precisi): un silenzioso sabba che chiama all’appello secoli remoti, pratiche perdute, miti dimenticati, e li riporta in vita. Cos’è d’altronde una biblioteca se non il luogo in cui si incrociano e dibattono i migliori, i più cari tra i nostri fantasmi, in cui raduniamo ed esibiamo le genealogie di antenati che ci siamo scelti, in cui l’immagine che abbiamo di noi stessi si compone come un elegante golem al cospetto delle spoglie cartacee di chi ci ha preceduto? Per evocare un tale convivio di libresche solitudini, Bolzoni sorvola serenamente, senza rinunciare al rigore, sulle cervellotiche teorie e pedanterie della più tipica saggistica accademica di oggi: sono i testi di cui il suo studio offre una lettura a determinare l’approccio della lettura medesima; il dialogo tra lettori e letture continua in questo stesso libro.

È DUNQUE UN SAGGIO su come si leggeva, ma anche su come si può ancora leggere: una collezione di testimonianze iconiche e letterarie che rimette in circolo le favolose metafore in cui si rispecchiavano i cittadini della Repubblica delle Lettere – e che offre così anche a noi lettori postremi un passaporto per quell’ospitale utopia umanistica. Si parte da Petrarca, dal suo inesausto appetito librario sul cui modello radica tanta parte della moderna concezione dell’individuo.
La fenomenologia della lettura petrarchesca trascende (o meglio, estende) i limiti dell’umano: il testo è più sincero dell’esperienza, rivela a chi legge l’anima di chi ha scritto e penetra nelle midolla più a fondo di qualsiasi pensiero o idea. Così ciò che leggiamo può finire per infettarci, addirittura possederci come fossimo automi: un po’ come nella fantascienza di Inception, ma con Virgilio a recitare la parte di Leonardo di Caprio.

La biblioteca è un magico e insidioso luogo interiore, ma anche un preciso luogo geografico e architettonico, costruito e popolato con collezionistica ossessione: Bolzoni ci mostra come a Valchiusa si rifondino alcuni miti cruciali della lettura (i libri come amici, la lettura come dialogo, la libreria come asilo dalle inadeguatezze del presente) e come il suo custode vi avvii quella sorta di giardinaggio del sé, quel bifronte immaginarsi lettura dei posteri oltre che lettore degli antichi, che sopravviverà a lungo nella condotta intellettuale d’Occidente.

A PARTIRE DA UN SIMILE bandolo, il filo della tradizione ripercorsa si annoda su alcune tra le più importanti vicende letterarie della modernità, dai viaggi ultramondani di Boccaccio ai folletti ladroncelli che disordinano i libri nella cella di Tasso, ma non tralascia fantasmagorici episodi meno frequentati: fanciulle zombie riesumate sulla via Appia all’alba dell’archeologia e della filologia, malconce mummie quintilianee risuscitate dagli umanisti del Quattrocento, la dilaniata Roma che Raffaello ricostruisce mentalmente come in un quadro dei videogiochi di Assassin’s Creed.
Un’erudizione finissima ma mai gratuitamente esibita anima il saggio, che volentieri recupera esempi curiosi (come un trattatello barocco di Camillo Baldi tra grafologia, fisiognomica e stilistica, utile a indagare i modi in cui si è espresso l’inesaudibile desiderio di incontrare gli autori più amati, famosamente vivo nel giovane Holden di Salinger e in certi odierni lettori di Elena Ferrante) e affascinanti casi cari all’autrice (come i «gorghi dell’artificio» di Giulio Camillo, dispositivi retorici che dischiudono i segreti del testo come oroscopi o bisturi da teatro anatomico).

ANCORA PIÙ VOLENTIERI, Bolzoni torna su pagine e luoghi capitali della memoria culturale europea, che si incastonano splendidamente nel suo racconto confermandone e rilanciandone i topoi: rilegge, in particolare, la straordinaria lettera di Machiavelli a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513 – il cuore del libro, e forse il più lampante emblema di ciò che chiamiamo Rinascimento – ed esplora la torre di Montaigne, nel leggendario castello di Dordogna, con le sue travi inscritte che intrecciano la voce degli antichi all’intima, formidabile lucidità dei Saggi. E in un ricco capitolo dedicato ai ritratti poi, approfittando del potere del mito delle sparse membra di Icaro che già aveva spiegato l’acribia dei primi umanisti e la concezione del libro come corpo da ricomporre, l’autrice compie un’ulteriore magia filologica: ricostruisce lo studiolo di Federico da Montefeltro, restituendolo idealmente alla sua originaria interezza come quotidiano teatro della lettura e galleria di lettori carica di eloquenti simboli.

FINO ALLE ULTIME PAGINE (dedicate al ritorno del topos della lettura come amichevole colloquio con gli assenti in un dialogo tra alcune conferenze di Ruskin e i saggi sul piacere del leggere di Proust) questo libro accogliente e meravigliosamente narrato, nato da un ciclo di lectures nella magica villa rinascimentale di Bernard Berenson ai margini di Firenze, sembra trascrivere uno di quei corsi sorprendenti e rivelatori, complessi ma in cui si capisce tutto, che fanno decidere ai ragazzi di studiare Lettere malgrado i tempi, e magari di diventare rinascimentisti per capire davvero Google.