L’immagine che resta negli occhi è il finale della Serenata di Bernstein, la violinista e il direttore che chiudono il pezzo con un gesto di slancio, come due schermidori, ansanti e sorridenti, sguardi entusiasti e luminosi. Janine Jansen, che quasi raggiunge in statura Antonio Pappano, nonostante il podio che li divide, rinnova in tre concerti la collaborazione con l’Accademia di Santa Cecilia, affrontando un pezzo di raro ascolto, la Serenata sul «Simposio» di Platone, scritta nel 1954 da Bernstein per l’amico Isaac Stern. Esuberante partitura per archi violino e percussioni, la Serenata sul «Simposio» articola la forma del concerto in cinque movimenti, ciascuno incentrato un diverso modo e carattere dell’amore, seguendo il testo di Platone.

Il dettato stravinskiano è elaborato è elaborato con sapienza, varietà e pathos, grazie al linguaggio già personalissimo di Bernstein, che alle suggestioni jazz alterna citazioni di alcuni brani pianistici giovanili. Janine Jansen, forte di una tecnica onnipotente e della costante complicità di Pappano, dipana alla perfezione le difficoltà della parte solistica, ora furiosamente brillante ora lievissima, dolente o sospesa. Il brano di Bernstein è al cuore di un programma che chiede e ottiene dall’orchestra una strenua, costante ricerca in fatto di colori e sfumature, mentre per ogni pezzo le strutture formali rivelano un percorso di singolare eccentricità, a partire da Bernstein.

Si inizia con i due pannelli da Miroirs, Une barque sur l’Océan e Alborada del Gracioso, che nell’ orchestrazione dello stesso Ravel si tramutano smaglianti affreschi liberty, carichi di languori anche esotici, in particolare la celebre pagina spagnoleggiante, resa da Pappano e dall’orchestra con slancio vigoroso e cura puntigliosa per l’elemento ritmico. Ancora una variazione sulla forma nella Settima Sinfonia di Sibelius, compositore molto caro a Pappano, la cui ultima fatica sinfonica è costruita con una forma ibrida fra il poema-affresco sinfonico e la sinfonia in unico movimento: all’elemento marcatamente muscolare si fonde, esaltato dal gesto di Pappano, il fascino di una cantabilità misteriosa e mai completamente svelata, intrecciato ai più brillanti passaggi di danza e alle citazioni folkloristiche.

Chiude il concerto una scatenata esecuzione de La Valse, di cui Pappano tende a esaltare i meccanismi motoristici più che l’abbandono, offrendo un’originale lettura permeata da un’inquietante sottolineatura drammatica, quasi che l’originale matrice viennese si fosse trasformata in una grottesca, rapinosa danza sul bordo di un abisso.

Intuizione già meravigliosamente sviluppata da Mahler, che nel 1920, dopo la guerra e la dissoluzione di un mondo intero, assume però una sconcertante evidenza profetica. Successo molto vivace, nonostante un pubblico fastidiosamente afflitto da tossi tubercolotiche e catarri atavici. Oggi ultimo concerto e consegna a Pappano del Premio della Critica tedesca per la sua incisione di Aida con i complessi dell’Accademia.