La pietra, il cemento, i mattoni di un muro sono la tela su cui dipinge la Street Art. Condomini smisurati, fabbriche dismesse, sottopassi, pilastri delle tangenziali, i luoghi dove ‘espone’. È lì, nella dimensione fantasma delle periferie, che l’arte urbana esprime tutta la forza dei suoi messaggi, usando le forme e i colori dell’ironia, della provocazione, dell’assurdo, della fantasia mai troppo lontana, però, dalla realtà. Lo ha fatto una volta di più quando è apparso chiaro che il Covid19, la pandemia, non sarebbe stata emergenza di pochi mesi, e che una catastrofe di tali proporzioni andava generando atteggiamenti e reazioni opposti.

Alla solidarietà collettiva, all’eroismo dei medici e del personale sanitario, al dolore della sofferenza e della morte, alla disperazione impotente di milioni di poveri, rispondevano il cinismo calcolatore dei governi negazionisti, Donald Trump in testa; il complottismo, becero quanto la terapia dell’immunità di gregge sbandierata da Boris Johnson; la crudele ignoranza del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, le speculazioni e le truffe, gli interessi economici delle multinazionali del farmaco. La Street Art non ha bisogno di passaparola; non ha bisogno di qualcuno che cominci per primo a raccontare, denunciare, testimoniare. Così, nell’arco di qualche settimana, da Milano a Londra, da San Francisco a Beirut, da Parigi a Città del Messico, spray e pennelli hanno creato centinaia di opere intorno ad un unico, tragico tema.

Una trentina di esse, particolarmente significative, sono state raccolte dal londinese Xavier Tapies, autore di due saggi dedicati a Bansky, nel volume La Street Art ai tempi del Coronavirus (L’ippocampo, euro 12). Scrive Tapies introducendo il suo lavoro «Rompendo le regole come da tradizione, gli street artist si sono fatti avanti… hanno catturato una miriade di emozioni: le restrizioni sul contatto fisico, l’incredibile ossessione per la carta igienica, il disagio dei dispositivi di protezione individuale, la sensazione di una malattia che pervade ogni cosa».

La Cina è grande, inevitabile assente. Trump compare un sola volta con Trump disinfectant, di John D’oh, Bristol, Regno Unito, a ricordare il suggerimento presidenziale di usare la candeggina contro il virus. L’esigua presenza di Donald, sorride Tapies, è presto spiegata: «Come hanno scoperto molti artisti, quell’uomo è al di là di qualsiasi parodia». Simbolo per eccellenza della pandemia è stata fin dagli inizi, e continua ad esserlo, la mascherina, al centro di falsificazioni, loschi traffici, controversie, polemiche.

Oltre all’immagine di copertina (Lovers, firmato da Pebel a Byrne, ottomila abitanti, Norvegia) le rendono omaggio, tra i molti, Corona Venus di Ragazzini, Milano, ispirato alla Venere del Botticelli, che poggia la mano destra non sul cuore ma sui polmoni; Corona Van Eyck, di Lionel Stanhope, visibile nel quartiere londinese di Ladywell, reinterpretazione del famoso Ritratto di uomo con turbante; le infermiere di Eddie Colla, Girl with mask e Wonder Nurse di Combo a Parigi, la Super Nurse di Fake, ad Amsterdam. Ciascuno di noi ricorda bene il periodo in cui trovare, in farmacia o al supermercato, un flacone di disinfettante per le mani risultava impossibile. E se si aveva la fortuna di trovarne uno, il prezzo era da borsa nera. Che non fosse soltanto un nostro problema lo dimostra il murale dell’americano Darion Fleming, realizzato a Charlotte, North Carolina. Si intitola Pur’ell gold e raffigura la confezione di un disinfettante leader di mercato negli States mentre il liquido, diventato oro, cola a terra formando una corona.

A Dublino, i Police di ESTR, dal muro di cinta di un palazzo, ‘cantano’ Don’t stand so close per invitare tutti a mantenere la giusta distanza. E proprio la necessità delle distanza ha creato nelle persone un profondo vuoto fisico, mentale, interiore. Lo ricorda Unity, di Gashner, Herts, Regno Unito, con le due figure che si abbracciano, intabarrate nelle tute protettive; il busto femminile, capelli rosso fuoco, posa mistica e assente, di Infection, Isaac Malakkai, Copenaghen, e la meravigliosa rappresentazione di Mgr Mors, Quarantine, lasciata in un quartiere di Nowi Sacz, Polonia: una cicogna, l’uccello migratore che porta i bambini, chiusa dentro un barattolo di vetro.

La minaccia del Covid ha trascinato con sé il rischio di eccedere nel proteggersi, non solo all’esterno ma anche tra le mura di casa. Esagerazioni che Henrique EDMX Montanari, San Paolo, Brasile, stigmatizza in No panic, mostrando una bambina e il suo orsacchiotto di pezza costretti a sopportare un’enorme maschera con respiratore. Peste del Ventunesimo secolo. Così definisce il Covid19 Suhaib al Attar, autore di Black Plague, Amman, Giordania, immortalato da un monatto seicentesco, cappello vittoriano, maschera che si allunga nel becco di un corvo.

Wrdsmth, Los Angeles, prova a concederci l’ossigeno, il respiro, di un sorriso. Ombrello aperto sopra la testa, mascherina di ordinanza, posa davanti al suo All the tacos: sfondo azzurro, una macchina per scrivere da cui esce un foglio. Il testo recita «Quando tutto questo sarà finito, mangerò tacos. Tutti i tacos».

Finché ci sono tacos c’è speranza? Forse non è proprio così. Ma restituire valore alle piccole cose che davamo per scontate, è senz’altro un buon modo di riconsiderare il futuro. Quando, appunto, tutto questo sarà finito.