La tavola pubblicata in copertina su Il gesto e il segno, il manuale di tecnica dell’incisione edito da Vanni Scheiwiller nel 1979, corrisponde al numero 364 del Catalogo generale dell’opera incisa 1953-2018 di Guido Strazza dato alle stampe da Allemandi e curato da Giuseppe Appella con la collaborazione di Bruna Fontana (pp. 362, euro 90,00). È una scacchiera di dodici possibili combinazioni e intrecci di segni a uso didattico – coerente con i temi portanti del testo scritto da Strazza stesso per i suoi studenti –, da inserire in un gruppo di opere del 1979, tutte intitolate Gesto e segno, nate da una costola della più ampia ricerca dell’artista sulla Trama quadrangolare avviata nel 1978: per molti artisti sono gli anni del «ritorno alla pittura» e delle sue declinazioni «analitiche»; per Strazza, classe 1922 e con una già lunga carriera da pittore alle spalle, costituisce un momento di sistematizzazione teorica intorno alle ragioni della pittura e dell’incisione e, soprattutto, sul concetto di segno.
Il libro del 1979, infatti, si apriva con un’ampia dissertazione, memore di Rudolf Arnheim, sui temi della percezione visiva e sul problema di «collegare il segno al gesto». «I segni», puntualizzerà nel corso della trattazione, «sono prima di tutto tracce di gesti. Come tali prima che forme sono apparizioni, qualcosa che cresce, è cresciuto e potrebbe crescere ancora sotto i nostri occhi, proposte di sviluppo e di aggregazione». Un ordito regolare restituirà un effetto visivo ed emotivo pausato ed equilibrato, ben diverso da un intreccio di linee lunghe e filamentose, simile magari a una scrittura minutissima, che provocherà una tensione dinamica più o meno acuta a seconda della concentrazione e dell’aderenza a una griglia ortogonale. Tutto, secondo Strazza, è «compresso nel gesto e nel segno che ne deriva», e il tema visivo dell’ombra che da esso era scaturito, come dirà in un’intervista del 2010, non è che «un affollamento di segni che sono compressi, in attesa di scoppiare, di essere chiamati fuori a farsi luce».
Eppure questa definizione non può coprire tutto l’arco della ricerca incisoria di Strazza, in cui è evidente la progressiva «decelerazione» descritta da Appella nell’introduzione al catalogo Allemandi: basta sfogliare il volume per incontrare, fra le 1302 opere schedate, momenti di puro abbandono gestuale, stagioni di rigore formale e cromatico, slarghi quasi musicali su temi figurativi che vanno dal mondo degli insetti a frammenti di architettura e che non hanno corrispettivi nella parallela ricerca pittorica. Strazza, in fondo, aveva detto che tutto si reggeva sulla funzione del segno, senza dichiarare una preferenza per un’opzione figurativa o astratta, tanto da selezionare per il manuale del 1979 alcuni dettagli ravvicinatissimi dalle incisioni di Piranesi a dimostrazione di quanta astrazione ci fosse, con sguardo lenticolare, nell’ordito che dà vita alle Carceri o alle rovine di Roma, evidenziando come la trama e la «vibrazione dell’insieme» dessero un ritmo alla disposizione degli elementi.
L’incisione, per lui, non era stata una scoperta precoce, e sembra avere un ruolo marginale per tutta la stagione che conduce a Possibilità di relazione, la mostra all’Attico del 1960, dove Crispolti lo invita a confrontarsi sul tema del superamento dell’Informale.
Tutto ha inizio nel 1953 quando, trentunenne, Strazza realizza la cartella Cuzco Machu-Picchu: tredici litografie dedicate alle due località andine gradualmente trasfigurate in pure composizioni astratte. Nelle prime tavole, ancora di impianto figurativo, si annidano infatti motivi geometrici fluttuanti: sono intarsi di pietre sulle pareti delle casette di paese, o ciottoli sparsi sulla terra battuta. Non li si scorge subito, ma dopo un’osservazione prolungata questi elementi assumono un rilievo autonomo, isolandosi dal contesto fino a diventare intrecci di linee e accordi di sagome elementari indipendenti dal contesto. Nel giro di poche tavole, a quel punto, Strazza compirà il salto verso la pura astrazione, tanto da chiudere la cartella nel segno dell’«art concret» e della «peinture de tradition française».
Difficile, infatti, vedere alcune di queste tavole senza pensare alla lezioni di Hans Hartung e di Alberto Magnelli, che il giovane pittore poteva aver ben presenti, pur vivendo in Sud America dal 1942, grazie alle Biennali di San Paolo del Brasile o all’azione combinata dell’industriale collezionista Ciccillo Matarazzo e del critico d’arte belga Leon Degand, che nel suo breve passaggio brasiliano del 1948 organizza un’importante mostra di arte astratta per il neonato Museo di Arte Contemporanea di San Paolo. Strazza – che si era lasciato alle spalle sia una laurea in ingegneria sia la militanza nelle file dell’aeropittura futurista, a cui era approdato grazie all’incontro con Filippo Tommaso Marinetti – non poteva non aver visto le opere di Klee e Mondrian portate in Brasile grazie a quella manifestazione, oltre a esempi del lavoro compiuto da artisti internazionali generazionalmente più vicini a lui che stavano combattendo la battaglia per un’identità europea dell’arte contemporanea da contrapporre all’incombente modello americano della Scuola del Pacifico.
Ad avvicinarlo all’incisione era stata la pittrice ebrea polacca Fayga Ostrower, di poco più grande di lui, presso il cui studio di Rio de Janeiro trascorre un periodo nell’estate del 1953: qui scopre le tecniche calcografiche e il lessico dell’arte astratta. Il frutto di quell’esperienza, però, si sarebbe compiutamente espresso dopo il definitivo rientro in Italia nel settembre 1954: Giuseppe Mazzariol, presentando una sua mostra personale alla galleria del Cavallino l’anno successivo, farà riferimento alla cartella del 1953, parlando di Strazza come di un artista che «sentiva la realtà come un telaio spaziale in cui si sviluppa la vicenda temporale della luce evocatrice del fenomeno, oggetto assunto e trasfigurato dal soggetto».
Dovranno passare altri dieci anni prima che tutto questo vada a regime, giungendo a un’idea di incisione, scrive Appella, come «un collage o un assemblaggio di metalli». È l’ingresso nel campo dell’astrazione rarefatta, tesa e trascendente, dove larghe campiture cromatiche generano luminose dissolvenze, scale chiaroscurali e incastri di forme geometriche. Ma dentro questa griglia, in parte accomunabile alle ordinate punzonature su rame di Giulia Napoleone (unica artista vivente citata e riprodotta, insieme a lui, nel libro del 1979), presto irrompe un gesto più libero, una traccia più intensa e marcata che risveglia un’indole informale: deriva da questo la vibrazione che innerva i suoi studi sulle decorazioni cosmatesche e le colonne spezzate dei Segni di Roma, fino a intrecci più o meno fitti e concentrati che da insetti e frammenti vegetali diventano ritmi e paesaggi minimali.
Non a caso, il termine più ricorrente della dissertazione di Strazza sul segno è «contraddizione»: un andamento lineare si intreccia a un altro con spirito di opposizione e contrasto, creando un conflitto espressivo ritmato dall’intensità ed energia impressa al gesto di partenza. Era la lezione di Wols, scoperta nel 1957, rimeditata per tutta la vita oscillando fra riscoperta del gesto informale e sua impostazione strutturante. Eppure, nei suoi anni maturi, raggiunto un nuovo silenzio interiore, il lavoro di Strazza ricorda che basta una linea per indicare l’orizzonte, e che da un groviglio di segni può nascere una libellula.