Si è chiusa sabato scorso Angelica, la manifestazione che da 24 anni promuove a Bologna un’attività concertistica con caratteristiche originali, soprattutto con indifferenza nei confronti delle divisioni dei generi musicali. Nel mese appena trascorso, dunque, ha portato in scena più di 20 concerti, i cui limiti di «stravaganza» erano a mio parere segnati dalle installazioni sonore di Mario Bertoncini, dalle canzoncine di Mirco Mariani, dal tardivo «fluxismo» di Yoshi Wada, dalla retorica innodistica di Wayne Horvitz, dal commovente duo formato da Globokar e Drouet, oltre che da un gruppo folkloristico di pigmei africani, cui valutiamo sia stata rivolta l’accoglienza di maggior successo.

Fatta eccezione per due puntate a Modena e a Lugo, le sale concertistiche sono state tutte bolognesi, anzi, tolte due occasioni, il teatro di Leo, già una chiesa di via san Vitale; questo significa che ambulanze, sirene e motori e un bel temporalone hanno mandato la loro creatività sonora, inconscia di sé, a mescolarsi con quel che facevano i musicisti. Entrando minimamente nel merito delle proposte, diremmo che in scena abbia prevalso la tradizione del modernismo. Con questo intendiamo che il più della musica che s’è ascoltata continua a manifestarsi erede dei turbinosi anni Sessanta o giù di lì: ne sono caratteristiche gestualità, libertà, l’hic et nunc del musicista creativo, il rischio di caducità della musica in atto, più operazione che opera. Marshall Allen, con Henry Grimes, Avreeayl Ra e Ka, pianista svizzera discendente dalla Schweizer, mostra un ramo del free jazz; Nicola Guazzaloca, incontrollabile irruenza gestuale sulla tastiera, fa venire in mente Cecil Tayor, ma solo per effetto atletico; Marco Dalpane suona musiche per il piccolo principe e Reinier Van Houdt ci riporta ai distillati di meditazione un po’ inebetita, effetto Maria Giovanna che nei concerti solistici o cameristici vedevano quarant’anni fa più persone sul palcoscenico che in platea; la letteratura musicale che torna è quella di Berio, con Laborintus II, di Andriessen con Letter from Cathy e con la sue riscritture di canzoni dei Beatles, musiche portate all’apogeo da Cristina Zavalloni, Rebaudengo e la Germino, e di alcune pagine di Ashley; in concorrenza con Sanremo, ma con un minimino d’ironia, se non di beffa, arrivano i Saluti da Saturno, mentre un cambiamento di programma ci offre, con l’insieme norvegese Asanisimasa una pagina di Lachenmann per trio e due musiche di Turvund.

Accompagnata da un’insopportabile striscia di suono a gran volume e null’altro, giunge anche una messinscena di Romeo Castellucci, Unheard, che però purtroppo si fa sentire mentre da un effetto oblò passano suggestioni organicistiche e nudi più o meno dettagliati. Non ci commuovono come riesce invece a fare l’omaggio di Horvitz a Butch Morris. Non che questi con le sue tecniche di conduction c’entri un granché, ma un’ottima orchestra raccolta da Novara Jazz compie un bel percorso in musiche da film che non sono in alcun film. Hanno però la retorica del technicolor, del grande paese, del canyon, della prateria, dello stile che in modo stereotipo suggerisce i sentimenti, in genere ancor più stereotipici, delle grandi pellicole di produzione, del cinema da sògno (con la o aperta).