«Nessuno – diceva Blaise Pascal – muore così povero da non lasciare nulla in eredità». In tempi di crisi e di povertà il tema dell’eredità è tornato ad essere di grande attualità. Lo dimostra il successo di una nota trasmissione a quiz televisiva, ma anche la scelta di questo motivo come parola chiave per il Festival di filosofia di Modena del 2015. Che nell’eredità ci fosse un bottino teoretico ricco di pietre preziose lo aveva ben capito il filosofo tedesco Ernst Bloch (1885-1977) negli anni Trenta, quando decise di intitolare uno dei suoi studi più importanti: Erbschaft dieser Zeit. L’imponente opera – pubblicata a Zurigo durate il grigio periodo dell’esilio, e uscita in italiano nel 1992 per i tipi del Saggiatore, con il titolo Eredità del nostro tempo e a cura di Laura Boella – è stata riedita dalla casa editrice Mimesis, in una traduzione rivisitata sempre a cura della filosofa milanese. La novità sta già nella scelta di un nuovo titolo, Eredità di questo tempo (pp. 480, euro 36): una formula più fedele all’originale tedesco e forse anche più efficace, nel sollecitare il corto circuito tra tempo e spazio.

La familiarità estranea

Il titolo scelto da Bloch raccoglie una rosa di interessanti provocazioni: perché c’è bisogno di ereditare questo tempo? Come è possibile ereditare qualcosa che è per definizione già nostro, è qui, a portata di mano? E allora: questo tempo è veramente presente? Per comprendere la pregnanza teorica di questo motivo bisogna inquadrare l’opera blochiana nella cornice storico-politica dell’«Altra Germania». Il tema dell’eredità del proprio tempo rappresenta infatti una questione centrale per una generazione di intellettuali ebraico-tedeschi, costretti, per sopravvivere alla barbarie nazista, ad emigrare, a lasciare le proprie terre (e i propri beni). Da qui si ricava il messaggio del titolo blochiano: esso consiste nell’invito a ereditare dal presente, non dal passato. Non è un caso se l’eredità di cui ci parla Bloch non riguarda l’estraneo, o meglio l’altro in quanto tale, ma l’estraneità del proprio, la «familiarità estranea», e l’«estraneità familiare».

Le pagine di Eredità di questo tempo introducono una connotazione particolare dell’eredità; si tratta di ereditare quell’aspetto del familiare che nel proteggerci ci espone. Il monito di Bloch è allora netto: il vero erede è colui che cerca di ereditare il proprio tempo, di «apprenderlo con il pensiero», in un’operazione né pacifica né indolore. Non è un caso se Laura Boella, nella sua densissima introduzione, sottolinea come il concetto di «eredità» di Bloch sia assimilabile a un tesoro da conquistare in un combattimento. Siamo ben lontani dalla concezione dell’amico György Lukács, che intendeva l’eredità come una trasmissione elegante, borghese. Niente di tutto questo in Bloch, per il quale l’Erbschaft assume i tratti di una rapina che avviene non a spese di un estraneo, ma di uno di famiglia, di cui volenti o nolenti si è eredi legittimi, insomma a spese di quell’estraneo che si annida proprio nel familiare.

Il dissidio con Lukács

Sulla dialettica di familiare ed estraneo si articolano le pagine di Eredità di questo tempo, dedicate all’eredità di Nietzsche, ma anche quei passi sofferti dove Bloch misura le divergenze tra le sue posizioni e quelle dei suoi (fino ad allora) più stretti interlocutori: Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Siegfried Kracauer. Il dialogo più acceso è con l’ex «compagno di strada» György Lukács, dal quale Bloch prende le distanze fino alla totale contrapposizione dovuta a una diversa valutazione del «socialismo realizzato» nella Rdt (tracce di questo dissidio si ritrovano nella Prefazione del 1962 a Eredità di questo tempo). L’introduzione di Boella ricostruisce magistralmente gli snodi più reconditi del dibattito, restituendo la complessità (e l’asperità) dei loro percorsi intellettuali.
Certo, con quest’opera Bloch ha voluto restituire (come eredità) alla comunità scientifica un testo scomodo, che «non rende le cose facili», nel senso che non cerca rapide soluzioni, non pacifica, ma semmai inasprisce, esaspera le contraddizioni. Le riflessioni blochiane si annidano nelle fessure del presente, s’incuneano negli interstizi, nei luoghi dove il terreno ha franato e, dopo lo smottamento, si sono aperte delle falle involontarie. Questo scardinamento, questa vertigine destrutturante, coinvolge per Bloch anche la dimensione temporale, che non segue più un andamento univoco, ma si coagula in una stratificazione di tempi storici non congruenti.

Non è un caso se Bloch compone Eredità di questo tempo con la tecnica del montaggio, trasportando le rovine in un altro spazio che si oppone al contesto abituale. Si ritrovano assemblati passi di Spirito dell’utopia (1918) e di Attraverso il deserto (1923), ma anche di altri scritti minori; il tutto viene combinato utilizzando il collante particolare offerto dallo stile affabulatorio di Tracce (1930). Come in un inedito collage (o meglio: frottage) si configurano nuove costellazioni, si stabiliscono insospettati equilibri, si tentano impreviste associazioni: si assalgono cioè i limiti del noto. In linea con questo gesto audace, Bloch rinuncia a un lavoro sistematico, imperniato su un centro stabile e definito. Impiega piuttosto – come Laura Boella chiarisce nell’introduzione – lo sguardo inquieto (e talvolta strabico) di una narrazione che non spiega ma combina, accumula, racconta, descrive, procede a salti, s’interrompe, torna indietro, ricomincia daccapo.

Una stratificazione plurale

In questo quadro della Germania dai contorni instabili e incerti Bloch tenta il suo passo più ardito, lo sforzo di comprensione più doloroso: quello di «guardare in faccia la forza di attrazione e la capacità della politica nazista di soddisfare esigenze frustrate e represse di larghe masse, nonché di intellettuali snob e di rispettabili accademici». Di contro al mito nazista e identitario della purezza del sangue, Bloch continua a ricordare negli anni Trenta che la Germania è una terra multietnica, una pluristratificazione di tempi e di culture. Al contempo l’analisi blochiana denuncia in modo lucido la corresponsabilità e l’inettitudine del partito comunista tedesco di fronte all’avanzata della destra. L’errore è stato proprio nel non aver compreso le stratificazioni presenti nell’eredità del proprio tempo e della propria cultura, nel non aver considerato, ad esempio, quella dialettica di familiare ed estraneo che è propria della dimensione mitologica.

Per questo e per tante altre ragioni Eredità di questo tempo di Ernst Bloch – che nella nuova veste contiene anche un prezioso apparato di note – si rivela un testo assolutamente importante, tanto imperdonabile («Gli imperdonabili» è il titolo della collana che lo ospita) quanto imperdibile: un’opera che mostra e dimostra la sua persistente attualità in tempi infausti segnati da tragiche migrazioni, ma anche da nefaste rivendicazioni identitarie, da chiusure nel medesimo e da sospetto per l’altro.