Nella prima inquadratura di The Act of Killing, una gigantesca struttura a forma di pesce di colore bruno e con la pancia argentea occupa il centro dell’immagine. Sotto di esso, una striscia di terra verdeggiante ritaglia le sponde di un lago che una fila di montagne, verdi anch’esse, finisce di incorniciare e che un cielo brumoso sovrasta di soffici nuvole rosate. Dalla bocca dell’animale, sei ninfe escono danzando, come richiamate da un canto soave. «Chi non conosce Il ramo d’oro del Turner ?» – scrive James G. Frazer. «La scena del quadro, tutta soffusa da quella aurea luminescenza d’immaginazione con cui la mente del pittore trasfigurava la bellezza della natura, è una visione di sogno di quel piccolo lago di Nemi, circondato da boschi, che gli antichi chiamavano «lo specchio di Diana». Chi ha veduto quell’acqua raccolta nel verde seno dei colli Albani, non potrà dimenticarla».

La citazione è lunga, ma leggere quest’incipit fa sempre piacere. Ancora una riga, e un passaggio si apre che dall’antica città di Aricia ci riporta dritti dritti alla moderna Giacarta: «Nei tempi antichi, questo paesaggio silvano era la scena di una strana e ricorrente tragedia.»

La tragedia vissuta dall’Indonesia in seguito al colpo di stato militare del 1965 è nota, così come sono conosciuti i colpevoli, i complici e le vittime. L’estrema destra e la fazione musulmana del paese, col benestare dell’Occidente, hanno perpetrato un genocidio ai danni dei membri e dei simpatizzanti del partito comunista indonesiano, filocinese – il terzo del mondo per grandezza, contava prima del massacro 300 000 aderenti. La strategia impiegata per sbarazzarsi di questo potente partito ricalca per molti versi quella che i nazisti hanno sperimentato con successo in Germania, in seguito all’incendio del Reichstag. Con la differenza che in Indonesia, paese che dal 1965 ha ottimi rapporti commerciali e politici con l’Occidente, i partiti che hanno concepito il genocidio sono tutt’ora al governo e che i capi delle bande di paramilitari che lo hanno compiuto presiedono riunioni pubbliche in cui lo sterminio non viene negato, ma esaltato e trasformato nel culto nazionale di una società libera perché fondata sullo sterminio dei comunisti.

Joshua Oppenheimer penetra questo mondo assurdo da una porta che il cinema europeo conosce bene: come si filmano i boia? Per lungo tempo, la risposta è stata quella che la fiction si è data ispirandosi, tra l’altro, alla storia dell’arte, definendo il canone morale entro cui si rappresenta il rapporto tra boia e vittima: il primo di spalle, il secondo di fronte.

Da alcuni anni, il cinema, soprattutto l’asiatico, sposta questi limiti, partendo da un quadro documentario, che il racconto fa evolvere dall’interno nei modi più diversi, non esitando in questo processo a dare un volto al boia. Il caso più notevole, è quello del cambogiano Rithy Panh e del suo S21 (2002).

Ma, mentre Panh si trovava a spezzare il silenzio sul genocidio Khmer, Oppenheimer ha davanti a sé la situazione opposta, quella in cui gli autori del genocidio evocano i propri atti di gioventù con la bonomia spavalda, a tratti veramente surreale, di vitelloni da bar. In altre parole, il problema del film è simile a quello che dava da pensare al Frazer il quale, all’inizio del suo studio sulla magia e la religione, si chiedeva come fosse possibile che le civili magistrature della Roma tardo repubblicana convivessero con la truce figura del Rex nemorensis, al tempo stesso sacerdote e omicida. The Act of Killing parte da questo punto e, invece di schivarlo, lo enfatizza trovando in questo bisogno patologico, presente in tutti i protagonisti del film, di interpretare (l’acting del titolo) il crimine, di ripeterlo senza fine, in tutti i modi possibili, un metodo d’analisi prezioso del passato e del tempo presente.