Si dice, di solito, che leggere sia un’esperienza irriducibilmente individuale. Che le condizioni di intimità con il libro e la lettura appartengano a una sfera del tutto personale. Certo, il libro si condivide, se ne parla e se ne chiacchiera con amici e in pubblico, però il presupposto rimane quella relazione intima, fatta anche di un’ambientazione e gesti sempre identici, come volessimo rassicurare noi stessi e l’altro del rapporto, che pure cambia ogni volta promiscuamente – oggi, un breve saggio divulgativo sulla fisica, domani, un romanzo francese dell’ottocento, dopodomani, un thriller del nord Europa.

Eppure, questa idea «borghese» della lettura non è sempre stata vigente. La lettura, anzi, era un atto pubblico, fondato sull’ascolto. Era un gesto di religiosità, partecipe della fondazione e del rinnovo di senso di una comunità. Le comunità religiose erano anche comunità di lettura. Tanto più zelanti, quanto più legate alla lettura. Più che oranti, leggenti.
Qualcosa di «sacro» lo si può ritrovare ancora oggi, partecipando a un reading o a un festival. I festival si sono sempre più assoggettati a operazioni di mercato: non che questo sia un male assoluto; spesso lo si fa con sciatteria, con noncuranza uguale alla baldanza. Eppure, in quella folla di astanti che ascolta leggere con sapienza un passo di un libro che magari conosce benissimo, forse sarebbe in grado di ripeterlo, le labbra si muovono da sole, e che poi sente l’autore – è venuto lì per quello – parlarne, spiegare, c’è sempre qualcosa che va oltre l’immediatezza spiccia della cosa. Si va officiando la lettura, dinanzi la comunità dei lettori.

La comunità dei lettori non è un fenomeno nuovo, ma qualcosa che è sempre esistita insieme al libro e si è evoluta insieme a esso, e ai modi, alle tecnologie e ai tempi della lettura. Dickens e Balzac pubblicavano a puntate i loro romanzi sui giornali: ogni settimana scrivevano un capitolo. A grandi linee avevano in mente una ambientazione e una trama e un pugno di personaggi, ma la complessità dei sentimenti, le sfaccettature dei caratteri, gli intrecci delle storie e delle vite, si evolvevano settimana per settimana. Non solo secondo il proprio talento e mestiere, la fretta di produrre e il bisogno di denari, ma anche secondo l’accoglienza, la ricezione della loro scrittura presso il pubblico dei lettori. Le traiettorie di alcuni personaggi virarono proprio perché il pubblico si affezionò a loro o li detestò, segnandone il destino romanzesco.

Si può, perciò, avanzare e azzardare un pensiero e un’ipotesi di lavoro. Guardare alla crisi e alla trasformazione del mercato editoriale, delle librerie, degli editori, con il declino e la concentrazione dei grandi marchi, dal punto di osservazione di quel fenomeno straordinario che possiamo chiamare l’indipendenza del lettore; o anche, con diversa nominazione, l’autonomia della lettura. La lettura mantiene ancora tratti di una irriducibile esperienza individuale, è vero. Quello che si è potenziato però è la comunità dei lettori, il popolo dei libri. In una sorta di general lecture, di lettura collettiva. È questa general lecture, la straordinaria produzione di recensioni, commenti, passaparola, suggestioni, suggerimenti, opinioni, che poi ritrovo nella mia scelta, nella mia decisione di leggere un libro, di rischiare quella lettura, di condividerla. Di restituirla. Una sorta – come dirlo altrimenti – di Reader’s Digest Universale, dove la traduzione letterale aiuta: ciò che il lettore ha digerito. E smaltito. È questo un fenomeno nuovo, mai visto, favorito dalle tecnologie, dall’innumerevole e straordinario mondo di blog di letture. Si è modificato il lettore, attraverso la lettura. In La passione per l’assoluto, il grande critico George Steiner mostra tristezza e incomprensione per quei giovani dei college americani che leggono libri ascoltando la musica e distraendosi con internet e chissà quali altre «diavolerie»: secondo lui, è impossibile leggere bene, se non concentrandosi assolutamente su una «lettura ben fatta». Però, siamo di fronte a nuovi soggetti mutanti, a un lettore mutante. Se è vero che si riduce la soglia di attenzione verso il libro – e, di conseguenza, il numero di pagine lette, di libri necessari –, si è spalmato verso altri oggetti e veicoli e strumenti il desiderio di conoscenza. Si è modificato anche tecnologicamente il lettore, ben più di quanto si sia modificato il libro. Va riducendosi la centralità del libro, va aumentando la pratica della lettura.

Magari sotto altre forme. Nessuno sa cosa accadrà del libro: aumenterà il fenomeno della sua scarsità, in un universo distopico alla Mad Max? Per intanto, il lettore mutante ha bisogno di leggere. Non basta il catalogo che ognuno porta con sé: senza aggiornamento, senza ricombinazione, non c’è creatività e inventiva, non ci sono nuove parole e nuove espressioni di sentimenti, nuove descrizioni di immaginario. Non si può essere messi al lavoro, non si può fuggirne. Questa indipendenza del lettore è uno straordinario desiderio di libertà e autonomia.

Ora, tale indipendenza non ha una forma sindacale, non è il Sindacato dei lettori. È invece un campo di battaglia, dove si convive e si confligge, capitalismo dei contenuti, piccola editoria, vecchi e nuovi librai, megastore, blockbuster e piccole tirature, censure preventive e libertà, libri di nicchia e mucchi di copie fino al soffitto. Si può credere che la comunità dei lettori, la general lecture, chieda agli editori indipendenti di fare esattamente quello che già fanno, piccole scoperte e riscoperte, collane curiose. Quelle cose che la grande editoria, il capitale dei contenuti non fa più, perché è diventato pigro e speculativo. Purché l’essere «piccoli editori» non sia preso come incarico di identità, come un processo identitario. I processi identitari sono contrari alla buona narrativa, non saprei come altro dirlo.

Questa autonomia, questa indipendenza del lettore non è un fenomeno lineare. Per un verso va controcorrente, per un altro segue la corrente, le indicazioni del mercato. A volte, si passano a fianco la «piccola lettura» di un gran libro, e la «grande lettura» di un piccolo libro. Spostare lo sguardo dal libro, dalla sua filiera produttiva al lettore può essere una chiave di interpretazione e di invenzione del «che fare». Il libro è una festa per il lettore. È su questo punto che dobbiamo inventare e agire: cosa può voler dire incrociare l’editoria indipendente e il lettore indipendente, l’editoria mutante e il lettore mutante?
Rimane, al centro di tutto, il libro. E senza buoni libri, che si può fare?